Zona Franca

di Isabella Bruckner
Il termine “teologia rapida” di Antonio Spadaro provoca. «Nell’aggettivo rapido si ritrova la radice del “rapire”, cioè afferrare, trascinar via», scrive il reverendo sotto-segretario del Dicastero per la cultura e l’educazione. Nell’ambito della giurisprudenza e della psichiatria, al termine latino raptus, italiano “rapimento”, inerisce un certo aspetto violento. Qui il raptus indica uno stato del sé fuori controllo, spesso connesso con atti di violenza. Nell’ambito delle lettere invece designa anche un momento di ispirazione improvvisa e intensa che può manifestarsi in un fervore creativo.
Giuseppe Villa, nella sua reazione alla proposta di padre Spadaro pubblicata il 26 aprile scorso in Settimana News, rintraccia il termine nei testi biblici. Evidenzia l’Ascensione come quel punto di partenza a partire dal quale i discepoli si sperimentano sempre di nuovo “rapiti” dallo Spirito, a volte in relazione con forti esperienze di interruzione — così a esempio nella conversione di Paolo sulla strada di Damasco — e non senza alcuni esiti di creatività sorprendente e generativa. Lo Spirito li guida verso aperture che sboccano in luoghi nuovi, prima insospettati. È dunque evidente che, con il termine del raptus, Spadaro evoca un vocabolario presente innanzitutto nel discorso mistico.
Il gesuita come caratterizza tale “teologia rapida”? Si tratta di un pensiero che si rende conto dei grandi cambiamenti della cultura, delle nuove realtà («nuovi soggetti, con nuovi stili di vita, modi di pensare, di sentire, di percepire e di stabilire relazioni») che emergono in questi cambiamenti, nonché della loro complessità. Un pensiero che osa esporsi a tutto questo. Ma non è più la Chiesa che dirige questi cambiamenti: «La Chiesa ha perso la regia della produzione culturale», è diventata un player culturale fra altri; riconoscere questa nuova condizione «implica la maturità di comprendere» che i fedeli sono “attori”, magari a volte anche “protagonisti”, «ma sempre insieme e accanto agli altri». Perché, così conclude padre Spadaro, «il nostro futuro non si costruisce più alla ricerca di “egemonie culturali”», nemmeno quella ecclesiale. Si deve invece “iniziare dai molti” , per riprendere una formulazione calzante di Pierangelo Sequeri.
A questo proposito si potrebbe ricordare un confratello del reverendo sotto-segretario, Michel de Certeau (1925-1986), che il 17 maggio avrebbe festeggiato il suo centesimo compleanno. Il gesuita francese, tanto apprezzato da Papa Francesco, faceva spesso risuonare la formula “non senza l’altro” per indicare l’impossibilità dell’esistenza spirituale-cristiana di chiudersi in sé stessa. L’ex-allievo di Henri-Marie de Lubac scoprì la sua vocazione a trovare l’altro soprattutto fuori dei “porti sicuri” della Chiesa e della disciplina teologica, in mezzo ad altri avvenimenti, attraverso il confronto diretto (fisico e intellettuale) con i movimenti degli studenti e lavoratori a Parigi nel maggio ’68. Da quel momento in poi de Certeau si volse coscientemente alle scienze umane contemporanee, come la psicoanalisi o gli studi culturali, e a una cerchia di lettori non più ristretta all’ambiente cattolico. Nel suo libro L’invenzione del quotidiano, de Certeau si dedica allo studio delle pratiche dell’uomo e della donna comune. Non si tratta di un agire potente e “strategico” ma più debole, “tattico”. Contrariamente alla prospettiva pessimistica del suo contemporaneo Michel Foucault e alle sue riflessioni sulle istituzioni della società disciplinare in Sorvegliare e punire, de Certeau sottolinea la creativa «antidisciplina» della vita quotidiana che non può essere determinata o controllata completamente nemmeno da un capitalismo pantocratico.
Michel de Certeau non descrive il soggetto consumatore come un’esistenza puramente passiva e semplicemente sottomessa al potere ma rimanda a una resistenza combattiva che si manifesta addirittura nella sfera del consumo pubblico e domestico. Questa si manifesta in alterazioni non pianificate dei prodotti o nel loro reimpiego in luoghi impensati, nonché in parte nell’uso improprio di cose e luoghi. «Il quotidiano si inventa attraverso mille forme di bracconaggio», constata de Certeau. Pur riconoscendo, quindi, le dinamiche corruttrici della logica capitalistica e tecnocratica, il gesuita francese intende mettere in evidenza gli spazi di libertà all’interno dei sistemi dominanti.
Questa potrebbe essere una prospettiva anche per una teologia rapida? Certo, Giuseppe Guglielmo ha ragione, quando afferma che nelle facoltà di teologia in Italia non si trovano molte “sollecitazioni interne” che suscitano iniziative innovative nella didattica, nello studio e nella ricerca. Le condizioni istituzionali spesso non sono favorevoli alla «ricerca di nuovi linguaggi per dire la fede», come ricorda Spadaro. Ed è fuori discussione che le istituzioni possano favorire con forza grandi cambiamenti ma anche ostacolarli in modo doloroso e frapporre inutili ostacoli. Non si deve in alcun modo negare questa responsabilità da parte dell’istituzione. La prospettiva di de Certeau ci invita a prendere in considerazione, nonostante tutto, il potenziale di libertà dei singoli soggetti stessi, senza i quali neanche le istituzioni (ecclesiali o secolari) possono sussistere. Resta quindi la domanda: arde in noi quel desiderio per l’altro e allo stesso tempo per gli altri che ha rapito gli apostoli e i mistici ma che ha anche fatto sì che uno studioso come Michel de Certeau lasciasse panorami noti e abituali per osare un’apertura del pensiero verso altri paesaggi e orizzonti?