· Città del Vaticano ·

Nel conflitto a Gaza che ha già prodotto quasi 60.000 morti

Negoziati senza fine
e senza esito

TOPSHOT - Smoke and debris rise following an Israeli strike on a house west of Jabalia, in the ...
02 giugno 2025

di Roberto Cetera

Il sentore di una possibile tregua a Gaza è durato poche ore. Anche questa volta secondo un copione ormai sperimentato già molte, troppe volte. Il mediatore di turno — che sia l’Egitto, il Qatar o Washington — annuncia ogni volta che un piano di tregua è sostanzialmente accettato da entrambe le parti, se ne attende quindi la formalizzazione, ma poi passano solo alcune ore e arrivano, insieme ad un’approvazione di facciata, anche i distinguo che inevitabilmente fanno saltare il tavolo. Una scena la cui prevedibilità sfiora ormai una patetica noia.

Il copione prevede che Hamas integri l’accordo con la proposta di non limitarsi ad una temporanea tregua ma chieda il termine definitivo di ogni combattimento e l’uscita delle truppe israeliane dalla Striscia. Dall’altro lato il governo israeliano replica che nessuna pace duratura può darsi fintanto anche l’ultimo militante di Hamas non abbia lasciato Gaza, e piuttosto non fa ormai mistero di nutrire il progetto di un’occupazione permanente della Striscia, di una deportazione della popolazione palestinese, e di una annessione del territorio tramite la reintroduzione di colonie di settlers ebraici. Questa israeliana non è una minaccia propagandistica da guerra mediatica, ma una strategia ben delineata e senza possibili mediazioni, il cui migliore interprete è stato nelle ultime settimane il ministro delle Finanze israeliano, Bezalel Smotrich. Era perciò abbastanza scontato che anche in questa occasione le speranze di conclusione di questa guerra — la più lunga e la più cruenta tra quelle combattute dal 1948 — rimanessero frustrate. Così Hamas ha dichiarato di approvare il piano presentato dall’inviato di Donald Trump, Steve Witkoff, aggiungendo però la richiesta di una tregua di almeno 7 anni di durata, garantita dagli Stati Uniti. Punto sul quale Israele, anche questa volta, si è tirato indietro.

Il nodo che contrappone le due parti rimane sempre e solo quello della conclusione definitiva della guerra e del ritiro delle truppe israeliane da Gaza. Su questo il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, non è disposto a cedere, anche per non rompere il patto che lo lega all’estrema destra religiosa di Smotrich e di Itamar Ben-Gvir. È lo stesso punto su cui Israele ruppe lo scorso marzo la tregua concordata il 19 gennaio.

L’incapacità di raggiungere un accordo in realtà, più che dalla volontà di prevalere sull’avversario, sembra motivata da persistenti convenienze di politica interna. Per entrambi. Per Hamas, consapevole che la fine della guerra implicherebbe la sua scomparsa, non solo militare, dallo scenario politico palestinese. E per Israele, per cui significherebbe la sconfitta anticipata della coalizione di estrema destra composta da Likud, partito sionista religioso, Giudaismo unito nella Torah e Shas, che vinse le elezioni del novembre 2022, e sgombrerebbe soprattutto gli ostacoli che oggi si frappongono al termine dei processi per corruzione in cui è imputato il premier Netanyahu.

Fa orrore pensare che questi calcoli di bottega e queste perverse logiche di potere consentano di non considerare ancora sufficienti le quasi 60.000 vittime finora raggiunte. Questa assurda ripetizione di mediazioni destinate al fallimento ha peraltro insegnato che ogni qualvolta il negoziato si fa più stringente e vicino al risultato, anche i bombardamenti si fanno più intensi e violenti e il numero di vittime innocenti ancora più alto. Al Jazeera segnala oltre 50 morti in tutta la Striscia anche nelle ultime 24 ore, tra chi è stato colpito mentre si trovava in attesa della distribuzione degli aiuti a Rafah e chi invece è stato ucciso a seguito di bombardamenti in altre aree dell’enclave.

Nel deficit di soluzioni diplomatiche la pressione internazionale si fa ogni giorno più forte, ponendo Israele in una posizione di isolamento internazionale che non ha precedenti nella sua storia. Anche da parte dei suoi alleati storici. E non solo la violenta contrapposizione di queste ore con il presidente francese, Emmanuel Macron, che ha annunciato l’intenzione di Parigi di riconoscere lo Stato di Palestina. La decisione, sempre di queste ore, di impedire l’incontro a Ramallah dei rappresentanti di Arabia Saudita, Giordania, Egitto, Qatar e Uae, mette in evidenza la volontà di Israele di impedire qualsiasi ipotesi di discorso sul futuro di una Gaza senza Hamas tra i soggetti su cui Trump ha fatto maggiore affidamento per la pacificazione e ricostruzione della Striscia.

Cosa può invertire questa situazione bloccata di negoziati inconcludenti dal continuo medesimo copione? Cosa può fermare la continuazione del massacro di civili a Gaza e consentire il ritorno degli ostaggi israeliani? Al momento l’unica opzione realistica e auspicabile è quella di un intervento più risoluto dell’amministrazione americana nei confronti di Netanyahu. Da esercitare più ancora che sul piano diplomatico su quello del sostegno militare ad Israele.