· Città del Vaticano ·

Il Salama Craft Centre, gestito dalla comunità Koinonia, vicino ai più bisognosi nella periferia di Nairobi

Una via di fuga
per le donne di Kibera

  Una via di fuga  per le donne di Kibera    QUO-125
31 maggio 2025

di Guglielmo Gallone

Ann regge la bambina con una fermezza dolce, come chi ha imparato a offrire rifugio anche quando tutto sembra vacillare. La piccola volge lo sguardo oltre, verso l’orizzonte, in cerca di qualcosa o di qualcuno. Intorno a loro, il cielo è nascosto dai tetti di lamiera di Kibera, una baraccopoli della città di Nairobi, capitale del Kenya, che si addossano l’uno sull’altro come sogni svaniti. Ann non è la madre della bambina che tiene in braccio. Nel momento in cui è stata scattata questa foto, giunta poche ore fa alla nostra redazione, la madre della piccola sta svolgendo un corso di igiene e nutrizione in una delle aule del Salama Craft Centre, un centro voluto e promosso dalla comunità di laici cristiani Koinonia, fondata dal missionario comboniano padre Renato Kizito Sesana nel 1982. Fuori, a tenere in braccio quella bambina, c’è Ann: social worker presso il centro Salama, educatrice, custode di tante, troppe fragilità.

Scene di questo tipo avvengono ogni giorno in questo angolo di Nairobi che il mondo chiama slum (dall’inglese, “baraccopoli”) e che loro, invece, chiamano casa. Nata nel 1912 per ospitare 600 soldati nubiani appartenenti al governo coloniale britannico, Kibera è oggi una delle baraccopoli più popolate e povere al mondo. Qui l’aspettativa di vita media è intorno ai 30 anni, quasi il 20 per cento dei bambini muore prima di aver compiuto 5 anni, i tassi di infezione da HIV sono estremamente elevati e solo il 40 per cento dei minori va a scuola ogni giorno. L’elettricità è scarsa e spesso viene prelevata illegalmente dalle linee elettriche. Fino a pochi anni fa Kibera era completamente sprovvista di acqua che doveva essere raccolta dalla diga di Nairobi ma che, non essendo potabile, è stata spesso causa di epidemie di tifo e colera. Oggi i bagni con scarico a terra e le fogne a cielo aperto sono all’ordine del giorno anche perché, a Kibera, mediamente una casa misura appena 3,6 per 3,6 metri. Nonostante ciò, questi spazi, costruiti con muri di fango, un tetto di lamiera e un pavimento di terra, sono spesso abitati persino da più di otto persone. Le “abitazioni”, peraltro, sono in affitto perché le istituzioni e i benestanti locali possiedono la proprietà di tutta la terra, poi affittata o subaffittata. Non ci sono ospedali né cliniche governative, la violenza è all’ordine del giorno e, in queste condizioni, la maternità arriva quasi sempre troppo presto, è frutto di stupri, quasi mai è accompagnata da una dimensione familiare. Le giovani kenyane si ritrovano così, sole, a fare spazio dentro di loro per una nuova vita mentre fuori si stringono miseria, abbandono e paura.

Il Salama Craft Centre vuole offrire alle donne di Kibera una via di fuga: è questo il messaggio che trasmette al nostro giornale padre Kizito, oggi 82 anni, da una vita in Africa al servizio dei più piccoli tra Kenya, Sudan e Zambia. «Sappiamo di essere una goccia nell’oceano. La nostra è una rivoluzione minuta, fatta di ago e filo, di sapone e quaderni, di mani che insegnano e occhi che ascoltano – ci racconta – eppure, queste giovani donne vogliono crescere, hanno un grande senso di volontà. E noi siamo andati incontro a questa esigenza. Nel 2019 ho incaricato Johnson e Samuel, due ragazzi che avevo raccolto quando erano bambini dalle strade di Nairobi, di trasformare la nostra piccola casa di Kibera: abbiamo ampliato gli spazi, messo in ordine e avviato una ristrutturazione per creare aule in cui s’insegna economia domestica, igiene per bambini, cucito, cucina e catering».

Oggi il Salama Centre ospita 60 giovani donne che, attraverso un programma formativo di 12 incontri, vedono, imparano, insegnano, dando vita a una realtà che anima buona parte di Kibera. Compito tutt’altro che facile perché, a conferma del fatto che la periferia è il centro, Kibera è notoriamente esposta a estremi atti di violenza specie nel periodo elettorale, come avvenuto nel 2008. I motivi sono diversi. Anzitutto, su una popolazione compresa tra 1 e 2 milioni di persone, qui convivono diverse comunità ed etnie (come Luo e Nubiani) e i partiti politici fanno leva sull’identità etnica per mobilitare il consenso esasperando divisioni già esistenti. Un certo peso lo ha anche la frustrazione presente nei giovani a causa della disoccupazione e dell’assenza di prospettive, nonché la vicinanza geografica alla capitale Nairobi, culla di uno Stato giudicato troppo spesso assente da luoghi come Kibera.

Proprio in questo slum è recentemente emersa una forte frustrazione popolare dovuta al Finance Bill 2024, una legge finanziaria promossa dal presidente William Ruto che prevedeva un aumento delle tasse per raccogliere circa 2,7 miliardi di dollari. L’obiettivo era ridurre il deficit di bilancio e gestire l’elevato debito pubblico, che ha raggiunto il 70 per cento del Pil. Queste misure erano in linea con le raccomandazioni del Fondo monetario internazionale (Fmi), che aveva concesso al Kenya un prestito di 3,6 miliardi di dollari, subordinato però a riforme fiscali e aumenti delle entrate. Le nuove tasse avrebbero colpito beni di prima necessità come pane, zucchero e carburante, aggravando il costo della vita per la popolazione. Perciò ha scatenato proteste diffuse, guidate principalmente dai giovani e culminate il 25 giugno 2024 con l'assalto al Parlamento, durante il quale sono morte almeno 22 persone.

Se in Kenya le manifestazioni avevano sempre riguardato lo scontro etnico, per la prima volta tutti i giovani, indistintamente, si sono uniti per denunciare un sistema corrotto e malfunzionante. Di fronte alla crescente pressione, il presidente Ruto ha ritirato il disegno di legge e ha ordinato tagli al bilancio per compensare la mancata entrata fiscale. Tuttavia, fonti locali anonime hanno raccontato al nostro giornale che, tra luglio e ottobre del 2024, sono stati almeno cento i giovani manifestanti identificati, prelevati per strada e rapiti. Alcuni sono già stati liberati, ma non parlano perché terrorizzati, mentre altri sono ancora nelle mani dei rapitori, evidentemente per motivi politici.

Sullo sfondo di un clima così teso, la speranza del Salama Craft Centre è ancora più forte: «Il nostro timore è che le prossime elezioni del 2027 siano l’ennesima occasione di violenza – conclude ai media vaticani padre Kizito – noi vogliamo invertire la rotta e, da poveri uomini che non hanno altra forza se non quella del Vangelo, vogliamo fare di queste donne dei veicoli di educazione alla pace, partendo dalle cose semplici nel loro quartiere e nelle loro famiglie fino ad arrivare a una dimensione sociale. Obiettivo: cambiare la mentalità di questo quartiere. I mestatori che fomentano la violenza per i propri vantaggi hanno un buon terreno soprattutto coi giovani disoccupati e disperati che non sanno come sopravvivere né hanno la possibilità di formare una famiglia. Dunque, diventano preda facile di chi promette soldi purché facciano violenza. Noi vogliamo disinnescare questo meccanismo partendo dalle donne e da un’educazione seria. Perché la pace disarmata e disarmante di cui ha parlato Papa Leone XIV paga sempre. La violenza, invece, distrugge tutto. Specie tra i più fragili. Specie nei teatri dimenticati di questa terza guerra mondiale a pezzi».