· Città del Vaticano ·

DONNE CHIESA MONDO

Nella Visitazione di Maria ed Elisabetta due donne testimoni di una promessa divina

La gravidanza, tempo sacro dell'attesa

 La gravidanza, tempo sacro dell'attesa  DCM-006
07 giugno 2025

È stato detto e scritto molto sul breve racconto della visita di Maria ad Elisabetta che fa parte dei primi due capitoli del vangelo di Luca. Insieme a quelli che aprono il vangelo di Matteo sono stati chiamati il “vangelo dell’infanzia”. Si tratta, in realtà, di un “vangelo delle origini”, con cui i due evangelisti hanno cercato di rispondere a una domanda divenuta cruciale per i cristiani della seconda generazione, quella sull’origine divina di Gesù: da quando il profeta di Nazaret è diventato Figlio di Dio? Dal momento della resurrezione, come affermato in alcune antiche formule di fede trasmesseci da Paolo, oppure dal momento del battesimo nel Giordano, quando lo Spirito ha consacrato il profeta galileo come “figlio prediletto” e la voce dal cielo lo ha proclamato tale? Se più tardi l’evangelista Giovanni arriverà a spostare all’indietro l’origine divina di Gesù fino a quell’ “in principio” da cui tutto ciò che esiste ha avuto origine (Giovanni 1,1-2), Matteo, ma soprattutto Luca vedono nel concepimento verginale da parte di Maria il momento originario di colui che, come l’angelo annuncia alla ragazza di Nazaret, “sarà grande e verrà chiamato Figlio dell’Altissimo” (1,32).

Il racconto lucano della visita di Maria alla sua parente Elisabetta fa dunque parte di un grande affresco narrativo che nel suo insieme mira a rendere ragione della figliolanza divina del Messia e in cui, a differenza di quello parallelo di Matteo, il protagonismo femminile ha un’indiscutibile importanza. Per Luca, l’incontro tra le due donne ha infatti un significato che va ben oltre quello della presunta cronaca di un fatto. Il silenzio a cui è costretto Zaccaria, marito di Elisabetta, e l’assenza di Giuseppe rendono ancora più efficaci i gesti e le parole delle due donne che, a ragione, sono stati interpretati come segni evidenti dell’empowerment dello Spirito che di quei gesti e di quelle parole è l’unico ispiratore.

L’incontro tra quelle due donne gravide, una, l’anziana Elisabetta che metterà al mondo l’ultimo dei profeti, e l’altra, la giovane Maria da cui nascerà colui che aprirà la vicenda umana all’era dei cieli nuovi e della nuova terra, attesta che la storia di Dio si intreccia con il mistero originario della vita, quello che si compie nel corpo di Eva, la madre di tutti i viventi, e continua a compiersi nel corpo di ogni donna che aspetta un figlio.

C’è un’enorme potenza simbolica in questa immagine di due donne che portano dentro di sé il mistero della vita e che sono loro stesse a rivelarne la qualità di mistero non soltanto biologico, ma teologico.

Perché tutto questo avviene non dopo la nascita, come per i pastori o, stando a Matteo, come per i sapienti venuti dall’oriente? Perché anticipare al sussulto di un feto nel grembo di una donna quanto avverrà poi nell’evidenza dei fatti sulle rive del Giordano, quando Giovanni, il figlio di Elisabetta, e Gesù, il figlio di Maria, si riconosceranno l’un l’altro e porteranno a pienezza la storia della profezia di Israele saldando insieme promessa e compimento? Anche questo fa certamente parte della logica delle anticipazioni che, come dicevamo, presiede alla composizione dei “vangeli delle origini”. Di ogni piccolo racconto di cui essi si compongono va però colto il significato proprio ed è appunto in questo che l’incontro tra le due donne gravide trova la sua forza simbolica: la gravidanza, in quanto tempo dell’attesa, riceve un senso pregnante a partire dall’orizzonte di fede di un popolo per il quale proprio all’attesa è affidato valore decisivo. La storia del Messia si innesta in quella del suo popolo che da secoli lo aspetta, ed è l’utero di quel popolo che, nonostante ormai vecchio, Dio rende comunque capace di generare perché è rimasto fedele alla promessa fatta ai padri e alla loro discendenza.

Non sembri una forzatura: la gravidanza è un tempo in cui le donne si riconoscono come “pellegrine di speranza”, perché dai segnali che per lunghi mesi ricevono dalla loro stessa carne, imparano ad accompagnare passo dopo passo il tempo dell’attesa e apprendono che la sapienza della vita si acquista anche imparando ad aspettare. La vita, quella di ogni essere vivente come quella dei popoli e dell’umanità tutta, si intesse nel silenzio e nel buio: «Sei tu che hai formato i miei reni e mi hai tessuto nel grembo di mia madre», aveva cantato il Salmista (Salmo 139,13). Per Elisabetta e Maria, cioè per due donne di fede, quel silenzio e quel buio parlano di Dio e cantano le sue lodi, perché rivelano che la sua presenza alla storia degli uomini non ne permetterà mai l’autodistruzione. Il saluto di Elisabetta e il canto di Maria rappresentano la prima epifania del Messia che avviene fin da quando Dio ha cominciato a intesserlo nel grembo di sua madre.

Non avrebbe certo senso affermare che una donna è pienamente tale solo se genera figli nella carne né, tantomeno, che per le donne è da lì che passa l’empowerment dello Spirito: lo dice con forza la realtà che ci sta intorno. Lo ha però teorizzato con altrettanta forza in questi ultimi decenni il pensiero delle donne che, finalmente, hanno preteso di liberare la definizione del femminile, tanto cara a ogni patriarcato, dalla maternità intesa come unico destino. Né, d’altro canto, significa affermare che il mistero della trasmissione della vita appartenga esclusivamente alle donne, perché sappiamo bene che non può essere racchiuso soltanto in ciò che avviene nel corpo delle donne. Non deve stupire, però, che Zaccaria e Giuseppe siano tenuti totalmente fuori dal racconto della visita di Maria a Elisabetta. Perché solo alle donne spetta di condividere la consapevolezza di ciò che accade attraverso di loro e dentro di loro. Una condivisione che diventa evangelo, buona notizia, nell’abbraccio tra colei che raffigura il popolo della promessa e colei da cui nascerà il Figlio dell’Altissimo e quando danno voce al tempo dell’attesa come tempo della speranza.

di Marinella Perroni