· Città del Vaticano ·

DONNE CHIESA MONDO

Una madre e la lezione di vita del proprio figlio

L’energeia di Berni

 L’energeia di Berni  DCM-006
07 giugno 2025

Il racconto intimo di una donna che durante la malattia del figlio di 20 anni riscopre la fede e dopo la sua perdita impara a toccare con il cuore ciò che le mani non possono più raggiungere e gli occhi non possono più vedere. Bernardo è morto un giorno di giugno del 2024, sul far della sera: sul petto aveva tatuato il simbolo della sua vitalità straordinaria.


Perché, adesso, vai in chiesa tutti i giorni, mi aveva chiesto, ad un certo punto, mio figlio Bernardo. Era febbraio, l’anno della sua maturità e nella sua bellissima vita di diciottenne era entrato il sarcoma di Ewing. Ho tutto, mi manca la salute, diceva spesso Berni, che riusciva a sintetizzare in poche parole la realtà. Pur con la consapevolezza di avere un carrarmato in corpo, così un medico aveva chiamato il suo sarcoma, Berni resisteva e, con una naturalezza disarmante, faceva le sue lunghissime chemio in Oncologia, poi usciva, tornava a scuola e andava a ballare. «Un uragano che riempiva la corsia camminando con il suo fare da modello da un corridoio all’altro, lasciando dietro di sé lunghe scia di gioia e leggerezza» mi hanno scritto di lui le infermiere del Campus Bio-Medico di Roma, che lo hanno conosciuto nei quasi tre anni di malattia.«Un fiume in piena, un’esplosione di vitalità, una tempesta di belle cose». Non trovo parole migliori per descriverlo, perché nelle loro lettere senza retorica l’ho ritrovato inaspettatamente vivo. Anche con loro era riuscito a fare quello che voleva, più che un’anima ribelle era un ammaestratore gentile di anime, per questo ti innamoravi di lui.

Quel che non sapevo era che nelle parole delle infermiere avrei trovato anche la riposta alla domanda di questo articolo: tutti i tratti che formano la spina dorsale della Speranza, la virtù umile e forte che richiede tenacia, soprattutto nell’accettazione del dolore, li avevano usati per descrivermi Berni dal punto di vista del paziente. Un Berni che non solo reggeva ma «continuava ad amare la sua vita», continuava a «mettere comunque la sua felicità davanti a tutto, senza farsi travolgere dagli eventi e parlava di futuro, ci raccontava i suoi viaggi, le sue sfilate, la sua vita ad Amsterdam e i suoi progetti». E’ stata la sua fede nella vita a farlo andare avanti, oltre ogni aspettativa. Non era ottimismo, era coraggio di vivere. Era fede assoluta nell’”energeia”? Una delle parole più importanti della filosofia greca se l’era tatuata sul petto.

Non chiedo il miracolo – gli dicevo, ritornando alla mia fede. Mentre facevo scivolare l’acqua di Lourdes sul bacino, sul punto del suo sarcoma, un gesto che tollerava a malapena. Ma era la verità, perché so che il vero miracolo è ciò che la Parola può suscitare in un cuore annientato come il mio. Il vero miracolo succede nel cuore, il prodigio è credere che Dio mi ama immensamente. È sperare, se lo cerco, nel suo abbraccio. Sant’Agostino dice che la fede è toccare con il cuore. Ecco, solo ora che scrivo capisco perché tre anni fa, d’istinto, sono tornata in chiesa, in cerca del Padre. A Berni avevo risposto che pregare mi dà forza. Ed è vero. Dona una forza inspiegabile. Ora so che mi sono convertita perché avevo bisogno di andare all’origine di quella forza, avevo bisogno dell’Amore infinito, illimitato, Assoluto, oltre i confini dello Spazio e del Tempo. L’Amore di Io Sono Colui che Sono. Sono tornata in chiesa dunque perché volevo Sperare oltre l’apocalisse, che era un orizzonte probabile già dall’inizio, essendo il suo raro tumore un carrarmato. Volevo Dio fortissimamente perché solo così, aprendomi all’Amore sconfinato non avrei perso Bernardo, solo così l’avrei potuto toccare per sempre. Non conosco Speranza più grande della preghiera, questa rivoluzione interiore e silenziosa che ti trapassa, ti trascende e ti prende per mano. E’ un dono, non solo farina del nostro sacco.

Negli ultimi giorni in ospedale, anche attaccato all’ossigeno, il corpo debole e prosciugato, Berni sorrideva. Quando non ha più potuto ballare, non ha più potuto tornare ad Amsterdam, ha inghiottito la sua energia in un sorriso ineffabile, che rendeva il suo dolore calmo, angelico, sacro. Aspettava in silenzio. Ci guardavamo. Nei suoi occhi vedevo l’abbondanza di chi è condotto al patibolo con il mattino nel cielo. Quell’abbondanza di “energeia” zampillava placida, anche quel pomeriggio con le amiche che gli avevano portato il gelato. Ricordo di essermi chiesta, quel giorno, dove trovasse ancora una volta la forza di ridere, di raccontare, di vivere. Non riesco a spiegarmelo se non ricorrendo alla poesia, al rovo valoroso di Emily Dickinson: “Il rovo - ha una spina nel fianco - ma nessuno l’ha sentito lamentarsi – Offre le sue bacche, ugualmente alla pernice - e al ragazzo. A volte si appoggia allo steccato - o si abbarbica ad un albero - o si avvinghia a una roccia, con due mani ma non per essere commiserato – Raccontiamo - un male – per calmarlo - Questo dolente - al cielo si avvicina un altro poco, invece- rovo valoroso”. Come il rovo, non si lamentava, e continuava ad offrire quel che poteva. Non è poi quello che ha fatto Giobbe? Amare la sua vita e il suo Dio nonostante le piaghe? Ho tutto, mi manca la salute. Non è questo vivere prendendo il bene e accettando il male senza soccombergli, il cardine della speranza? Amare, come ha fatto Gesù, fino alla fine? “Li amò fino alla fine”.

Se ne è andato il giorno dopo, era il 13 giugno dell’anno scorso: sembrava una mattina di sole come le altre. Eravamo all’ospedale, gli avevo portato il caffè. E lui si era lamentato che avevo fatto tardi. «Si fredda» mi aveva scritto al telefono. Al tramonto ha raggiunto il Cielo. Il giorno dopo gli amici dovevano tornare con dell’altro gelato. E invece lui ha detto «Non respiro più, sto morendo». Le sue ultime parole sono state una constatazione oggettiva, comunicata con la stessa autorevolezza e con la stessa bellissima voce con cui ti diceva esco un attimo a prendere le sigarette. La morte lo ha colto vivo. Quella parte di me che è rimasta morta a terra riesce ora a scrivere solo perché crede che lui continui a vivere da un’altra parte. “La morte non è niente - recita la poesia di Henry Scott Holland - Sono solamente passato dall'altra parte: è come fossi nascosto nella stanza accanto”.

Per noi cristiani la morte è un passaggio, non è la fine. E’ il fulcro della nostra fede. Con quella terribile compostezza, Berni non ci aveva detto più o meno la stessa cosa, constatando a suo modo solo il passaggio? E’ questo che mi voleva dire? Ed è per rendere sopportabile lo strazio qui in terra della separazione che prego Maria? “Abbi pietà di coloro che si amano e sono stati separati, abbi pietà della solitudine del cuore, abbi pietà degli oggetti della nostra tenerezza”. La Speranza non è un solido ma un cammino fatto di buche. Diceva Papa Francesco che in questo percorso era importante non rimanere caduti. Prego incessantemente per non rimanere a terra, per non cedere all’oblio, per continuare a toccare la sua energeia con il cuore.

di Elena Martelli
Giornalista e autrice tv