Vicini alla gente

di Giordano Contu
Una «pace disarmata» si realizza ogni giorno tra le macerie del conflitto. La ricostruzione materiale e spirituale passa attraverso la vicinanza alla gente. Nel sud del Libano, lungo il fragile confine con Israele, i militari della missione Unifil (United Nations Interim Force In Lebanon) operano silenziosamente per garantire la stabilità di una regione segnata da decenni di tensioni. Donne e uomini del contingente internazionale difendono quotidianamente quella «pace disarmata» che si fonda non sulla forza, ma sulla relazione con l’altro. Come ha detto Papa Leone XIV in un recente discorso al corpo diplomatico: «La pace non è la semplice assenza di guerra, ma il frutto maturo di giustizia, dialogo e perdono. È un’opera artigianale, da intessere giorno per giorno con mani pazienti». È proprio questo l’obiettivo della più vasta missione italiana all’estero, che con i suoi progetti cerca di sradicare i germi della violenza.
«Per Unifil attualmente le Forze armate libanesi costituiscono il partner strategico, con cui collaboriamo giornalmente seguendo i canali ufficiali ma anche attraverso rapporti personali tra me e i comandanti del settore ovest», spiega in questo colloquio in esclusiva con i media vaticani il generale Nicola Mandolesi, al comando della brigata Pozzuolo del Friuli. Il fine della cooperazione è triplice: disinnescare la sete di vendetta, ricostruire la fiducia nelle istituzioni politiche e religiose, consegnare il controllo del territorio alle Lebanese armed forces. Perciò «subito dopo la firma per la cessazione dell’ostilità è ripresa un'intensa attività per riallacciare i rapporti con le autorità locali che si erano interrotti durante il conflitto», aggiunge il generale, che si occupa di engagement con i sindaci e le personalità religiose della zona.
La parola engagement fa cogliere una importante sfumatura di significato: l’ingaggio non è riferito al coinvolgimento in azioni armate contro il nemico, piuttosto l'entrare in contatto con l’altro per tessere una rete di giustizia, dialogo e perdono. È un lavoro evangelico, come ci dice don Flavio Riva, il cappellano militare dell’operazione Leonte, ossia il comando italiano del Settore Ovest di Unifil che difende la pace ai confini fra Libano e Israele. «Quando ai militari parlo del Vangelo cerco di far comprendere che non si tratta solo di parole, ma di un incontro con una persona viva, attuale, vicina a noi. Cristo è nostro fratello, qui e ora». «Le pagine che leggiamo spesso fanno riferimento alla pace, ma è Dio che continuamente dona la pace al cuore dell'uomo impegnato nella sua lotta quotidiana tra il bene e il male. Perciò anche il militare deve essere consapevole che, al di là del suo grado, è un ambasciatore» di pace.
In questo intreccio delicato si inserisce il lavoro quotidiano di uomini e donne in uniforme. Li chiamano Caschi blu, peacekeeper, manutentori della pace. Apprezzano poco essere definiti una Forza di interposizione, perché evoca un trovarsi passivamente in mezzo fra due eserciti, con le tensioni pronte a riaccendersi in ogni momento. È riduttivo se pensiamo alle attività umanitarie e di solidarietà messe in campo da Unifil. «Il nostro compito è interagire direttamente con la popolazione e ascoltare come sta davvero», dice il sergente maggiore Emilio Sirena, a capo del Tactical Community Outreach Team, un gruppo di militari che ha il compito di camminare fra la gente dei villaggi. Un’azione tanto semplice quanto potente: l’incontro e l’empatia diventano strumenti di pace più efficaci di qualsiasi armamento.
Questa attività consente di cogliere percezioni e bisogni. «Alcune donne ci chiedono supporto per acquisire competenze professionali. Altri, aiuto psicologico per i bambini». Nelle scorse settimane «ho incontrato il direttore del Mosan Center, un centro specializzato per ragazzi con vari tipi di disabilità», racconta il maresciallo Francesca Esposito, Gender Advisor che si occupa delle persone più vulnerabili come vedove, bambini, anziani. È una presenza concreta che può fare la differenza. L’ascolto attivo restituisce dignità ed è un punto di partenza per ricucire il tessuto lacerato di una società. Questo è il cuore della cooperazione civile-militare, che prevede anche assistenza medica, corsi di formazione, donazioni, eventi coi i bambini e in favore della piccola imprenditoria. «Il fine è quello di costruire relazioni di fiducia», ribadisce il graduato Francesca Passaro, del Tactical Civil Affairs and Civil Military Cooperation Team.