· Città del Vaticano ·

Hic sunt leones
L’Africa è cartina al tornasole delle contraddizioni imposte dalla globalizzazione dei mercati

Molte parole
e tante contraddizioni

 Molte parole e tante contraddizioni   QUO-124
30 maggio 2025

di Giulio Albanese

Domenica scorsa abbiamo celebrato il cosiddetto “Africa Day”, la tradizionale giornata mondiale dell’Africa. Si tratta dell’anniversario della fondazione dell’Organizzazione dell’Unità africana (chiamata dal 2002 Unione africana) avvenuta il 25 maggio 1963 ad Addis Abeba, in Etiopia. Come di consueto, sono state profuse parole edificanti dai pulpiti della politica di mezzo mondo all’insegna della solidarietà nei confronti di questo continente, poliedrico contenitore di saperi millenari, luoghi di passioni, ricchezza culturale e artistica.

Sia chiaro, in questi ultimi anni sono state messe in campo, da parte del consesso delle nazioni, diverse iniziative per innescare l’agognato cambiamento. Ad esempio, è in fase di esecuzione il Global Gateway, piano di connettività dell’Unione europea da 300 miliardi varato a fine 2021 e con un periodo di azione fino al 2027. Da parte sua, il governo italiano ha annunciato un Piano Mattei per gestire le relazioni tra l’Italia e i Paesi africani, dichiarandolo basato su una cooperazione «da pari a pari» e non di tipo «predatorio», diversamente da quanto avvenne in passato. Il Piano dovrebbe fondarsi su 6 direttrici: istruzione-formazione, agricoltura, salute, energia, infrastrutture fisiche e digitali.

I cinesi dal canto loro proseguono l’attuazione della Nuova Via della Seta, meglio nota con gli acronimi Obor (One Belt One Road) e Bri (Belt and Road Initiative), in cinese yidaiyilu, un’iniziativa prevalentemente infrastrutturale, tesa a collegare, almeno inizialmente, più di 60 Paesi in Asia, Europa e Africa, beneficiando oltre quattro miliardi di persone.

Gli Stati Uniti con la nuova amministrazione Trump hanno indirizzato diversamente la politica di clintoniana memoria “Trade not Aid” (Commercio non aiuti). «Continueremo a investire nello sviluppo, ma lo faremo attraverso l’espansione del commercio e degli investimenti privati, perché è il settore privato, non l’assistenza, a guidare la crescita economica. Storicamente abbiamo enfatizzato le riforme macroeconomiche, piuttosto che abbattere le barriere e aprire le porte alle aziende americane sul territorio», ha dichiarato l’ambasciatore Troy Fitrell, capo dell’Ufficio per gli Affari africani del dipartimento di Stato.

Se da una parte, almeno concettualmente, suona bene parlare di sviluppo al posto di mero assistenzialismo, il rischio, sempre in agguato, è che dietro la diplomazia commerciale l’Africa risulti essere sempre perdente. Nei giorni scorsi a Washington, è stato firmato, con la mediazione statunitense dell’amministrazione Trump, un accordo preliminare tra il Rwanda e la Repubblica Democratica del Congo, le cui province nord-settentrionali sono state occupate dalle milizie filo-rwandesi. Il pacchetto prevede degli accordi bilaterali paralleli per l’accesso privilegiato degli Usa alle miniere di coltan, litio e cobalto del Nord e Sud Kivu.

Nel frattempo, questo continente è teatro di conflitti armati che causano pene indicibili alle stremate popolazioni locali: dal Sudan alla Somalia; dall’ex Zaire alla fascia saheliana. Si tratta di una vulnerabilità che accresce costantemente l’insofferenza delle masse africane.

La verità è che l’Africa è oggi la cartina al tornasole delle contraddizioni imposte dalla globalizzazione dei mercati. Infatti, se da una parte l’emergere, il diffondersi e il perdurare di numerosi conflitti armati a livello continentale sono strettamente legati alle debolezze nei processi di state-building e nation-building; dall’altra sono innegabili, al di là della retorica di circostanza, le interferenze straniere che condizionano la cosiddetta coerenza sociale e i meccanismi per garantire uno sviluppo economico sostenibile. Basti riflettere sullo sfruttamento delle commodity da parte di aziende straniere d’ogni genere, per non parlare degli effetti della speculazione finanziaria internazionale che penalizza i mercati africani.

Il problema di fondo è che queste politiche, per quanto rappresentino un incentivo dal punto di vista della cooperazione nord-sud, non tengono conto della soluzione dei problemi sistemici che assillano il continente. In primis, la questione del debito divenuta pressoché ingestibile da quando i governi africani hanno sostituito il debito multilaterale a basso costo e lungo termine con un debito verso creditori privati — assicurazioni, banche, fondi di investimento, fondi di private equity — molto più oneroso e a breve termine. Con il risultato che il debito in quanto tale è stato finanziarizzato e il pagamento degli interessi è oggi inscindibilmente legato alle attività speculative sui mercati internazionali. In questo contesto, la finanza come è oggi considera inaffidabile un paese pesantemente indebitato, e di conseguenza lo costringe a pagare più caro il denaro: almeno quattro volte di più di quanto pagano i Paesi economicamente avanzati.

In termini assoluti, il totale del debito pubblico africano non è così alto: si parla di 1,8mila miliardi di dollari, rispetto ad esempio ai 2,9mila miliardi della Germania. Anche il rapporto debito-Pil in 49 Paesi africani è più basso rispetto a quello degli Usa, dell’Italia, del Giappone o della Grecia. Eppure, otto Paesi su nove in situazione di “stress finanziario”, secondo il Fondo monetario internazionale sono africani. Hanno debito, non hanno risorse o prospettive produttive con cui farvi fronte. Allo stesso tempo, secondo la Commissione economica per l’Africa delle Nazioni Unite (Uneca nell’acronimo in inglese), sono africani 17 dei 20 Paesi più minacciati dal cambiamento climatico. Gli attori privati del sistema finanziario internazionale difficilmente accettano riduzioni degli importi loro dovuti e complicato appare il tema della cancellazione del debito se si tiene conto di quanto frammentato sia oggi il panorama del credito.

Detto questo, possono esservi delle soluzioni? Le proposte che vengono in mente a chi scrive sono almeno tre. La prima è di una logica lapalissiana anche se poi certa diplomazia sembra essere estranea al rigore della ragione. Il consesso delle nazioni dovrebbe prendere in considerazione la questione dei Flussi finanziari illeciti (Iff). Ogni anno, infatti, stando ai dati dell’Unctad, l’autorevole Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo, quasi 90 miliardi di dollari, equivalenti a poco meno del 4 per cento del Pil africano, viene trafugato dal continente sotto forma di Iff, vale a dire movimenti illegali di denaro e beni attraverso le frontiere che risultano, alla prova dei fatti, illegali nella fonte, nel trasferimento o nell’uso. Da questo si evince che, se questi flussi fossero presi in considerazione dai grandi attori internazionali, si scoprirebbe che l’Africa non è debitrice, ma creditrice.

Un’altra proposta molto concreta è quella di una conversione flessibile, totale o parziale, del debito sovrano in un fondo di contropartita in valuta locale, chiamato Sdg Fund o Fondo Oss. Questo fondo sarà destinato a finanziare progetti che si allineano con gli obiettivi di sviluppo sostenibile (si tratta di un insieme di 17 obiettivi che compongono l’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, adottata dalle Nazioni Unite nel 2015). Il proposito di questa iniziativa è affrontare le fragilità strutturali dei Paesi beneficiari e stimolare investimenti sostenibili a lungo termine, contribuendo così a una crescita economica resiliente e inclusiva che possa ridurre le diseguaglianze e creare posti di lavoro.

Perché un creditore dovrebbe farlo? È evidente che il Paese, o il privato, creditore deve avere un’opzione di privilegio, di prima mano, di first choice rispetto a questi fondi nel Paese debitore da poter far utilizzare alla sua impresa per ulteriori investimenti. L’iniziativa avrebbe un forte impatto sia a livello politico internazionale, come passo fondamentale nell’attuazione degli impegni del finanziamento per lo sviluppo, sia di programmazione ed operatività nel campo della cooperazione internazionale, per una ristrutturazione del debito che sia equa e regolare.

Infine, è fondato l’auspicio, espresso dagli estensori della Carta di Sant’Agata dei Goti (un gruppo qualificato di giuristi cattolici) che prima o poi l’Assemblea generale delle Nazioni Unite giunga a formulare una richiesta di parere alla Corte internazionale di giustizia dell’Aja sui principi e sulle regole applicabili al debito internazionale, nonché al debito pubblico e privato. L’obiettivo auspicato è che si proceda alla rimozione delle cause delle perduranti violazioni dei principi generali del diritto e dei diritti dell’uomo e dei popoli, determinando così un obbligo inderogabile, come peraltro già si evince da numerose risoluzioni dell’assemblea generale dell’Onu. Una cosa è certa: un Piano Marshall o Mattei che dir si voglia per l’Africa non dovrebbe prescindere da queste considerazioni. Altrimenti come possiamo pretendere di nasconderci dietro l’affermazione di “aiutarli a casa loro”?