· Città del Vaticano ·

Un studio rivela che quello della Nato potrebbe aumentare le emissioni di gas serra di 200 milioni di tonnellate all’anno

Il riarmo globale minaccia anche il clima e l’ambiente

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30 maggio 2025

di Giada Aquilino

Il riarmo militare globale rappresenta una minaccia concreta agli obiettivi di contrasto al cambiamento climatico: quello previsto dalla Nato, in particolare, potrebbe aumentare le emissioni di gas serra di quasi 200 milioni di tonnellate all’anno. È quanto emerge da uno studio del Conflict and Environment Observatory (Ceobs), ong che dal 2018 lavora per aumentare la consapevolezza e la comprensione delle conseguenze ambientali e umanitarie dei conflitti e delle attività militari. Mentre il mondo è coinvolto nel più alto numero di conflitti armati dalla Seconda guerra mondiale — quasi un centinaio gli Stati coinvolti, secondo dati recenti — i Paesi hanno avviato spese militari ingenti, raggiungendo collettivamente la cifra record di 2,46 trilioni di dollari nel 2023. Quotidianamente, davanti ai nostri occhi, abbiamo prova drammatica dei costi umani delle guerre, con l’enorme numero di vittime nella Striscia di Gaza come in Ucraina, in Sudan come in Myanmar. Ma per ogni dollaro investito in nuovi armamenti, c’è poi un costo pure in termini di emissioni di carbonio e effetti sul clima, spiega Ceobs, che ha redatto la ricerca in risposta alla richiesta dell’Onu riguardo all’impatto sul raggiungimento degli Obiettivi di sviluppo sostenibile dell’aumento nel mondo delle spese militari.

«C’è una reale preoccupazione per il modo in cui stiamo dando priorità alla sicurezza a breve termine e sacrificando quella a lungo termine», ha sottolineato Ellie Kinney, ricercatrice del Ceobs e coautrice dello studio condiviso in esclusiva ieri dal britannico «The Guardian». «A causa di questo tipo di approccio disinformato che stiamo adottando, ora stiamo investendo in una rigida sicurezza militare, aumentando di conseguenza le emissioni globali e peggiorando ulteriormente la crisi climatica», ha dichiarato, evocando scenari di ulteriori violenze, con il cambiamento climatico stesso sempre più visto come un motore di conflitto, seppure indiretto. Nella regione sudanese del Darfur, nel quadro più ampio di un conflitto che dal 15 aprile 2023 oppone esercito di Khartoum e paramilitari e che segue quello dei primi anni Duemila con un bilancio di 300.000 morti, l’insicurezza è legata anche alla competizione per le scarse risorse dopo prolungate siccità e desertificazione. Nell’Artico, il ritiro dei ghiacci marini sta creando ripercussioni sull’accaparramento di giacimenti di petrolio, gas e importanti risorse minerarie, ora accessibili.

Mancano, a livello planetario, dati chiari sull’entità dell’utilizzo da parte degli eserciti di combustibili fossili, ma i ricercatori hanno stimato che complessivamente sono già responsabili del 5,5% delle emissioni globali di gas serra. Si prevede che questa cifra aumenterà con l’intensificarsi delle tensioni in diverse regioni. Gli Stati Uniti, per decenni il maggiore consumatore mondiale di risorse militari, hanno detto di aspettarsi che i loro alleati dell’Alleanza atlantica dedichino più risorse alle forze armate.

Secondo il Global Peace Index, nel 2023 la militarizzazione è aumentata in 108 Paesi: 92 quelli coinvolti in conflitti armati — si ricordano tra gli altri pure le realtà di guerra nell’est della Repubblica Democratica del Congo e il conflitto congelato tra India e Pakistan sul Kashmir, oltre che le tensioni su Taiwan — ma altri governi che temono scenari ostili stanno investendo ulteriormente nei loro eserciti.

In Europa l’aumento è stato particolarmente drammatico. «L’invasione russa dell’Ucraina — si legge nello studio del Ceobs — ha provocato un drastico aumento della spesa militare dell’Unione europea» e, tra il 2021 e il 2024, quella totale degli Stati membri dell’Ue è salita «di oltre il 30%», secondo i dati dell’International Institute for Economics and Peace. «Nel 2024 ha raggiunto una cifra stimata di 326 miliardi di euro, pari a circa l’1,9% del Pil dell’Ue, sfiorando il target del 2% fissato dalla Nato, destinato ad aumentare». A marzo, i Ventisette hanno fatto sapere che si sarebbe andati oltre, con proposte per una spesa aggiuntiva di 800 miliardi di euro mediante il piano “ReArm Europe”. In generale il Conflict and Environment Observatory ha analizzato il potenziale impatto di una maggiore militarizzazione sul raggiungimento degli obiettivi climatici. I risultati sono stati sconfortanti: il probabile aumento delle emissioni dovuto alla sola rimilitarizzazione della Nato sarebbe pari a quello di un Paese grande e popoloso come il Pakistan. E in generale, in un momento in cui c’è sempre più bisogno di una pace «disarmata» e «disarmante» come ha ricordato Papa Leone XIV nella sua prima benedizione Urbi et Orbi dalla Loggia della Basilica Vaticana, la crescita della spesa e della produzione militari per aumentare le scorte rimane «ad alta intensità energetica», fa notare Ceobs, mettendo in risalto come i progressi nelle tecnologie militari a basse emissioni di carbonio rimangano «limitati»: ciò a dire che «le forze armate saranno vincolate ad attrezzature ad alta intensità di combustibili fossili» e che esse «saranno utilizzate per i decenni a venire».