
di Patrizia Caiffa
Un grande visionario che ha realizzato opere e rivoluzionato il mondo della disabilità e la sua percezione in Italia e a livello ecclesiale. Un uomo buono, mite e umile, un tumulto di progetti e parole che non si fermava davanti ad alcuna difficoltà, soprattutto economica, pur di raggiungere i suoi obiettivi: uscire dall’assistenzialismo, restituire dignità e pari diritti alle persone con disabilità, agli ultimi, agli oppressi. Poche parole per descrivere don Franco Monterubbianesi, fondatore della storica Comunità di Capodarco, morto a 94 anni il 27 maggio nella sua città, Fermo, nelle Marche, dove era tornato a vivere un anno fa.
Don Franco venne ordinato sacerdote il 19 agosto 1956, poi iniziò a insegnare filosofia nel seminario di Fermo e religione in un istituto tecnico. La prima volta che lo vidi, giovane aspirante giornalista, fu nel 1992 durante uno sgombero a Roma di una struttura che sarebbe stata destinata alla sede romana della Comunità. Aveva una particolare affezione per i giornalisti e per i giovani, a cui comunicava con entusiasmo tutta la sua travolgente visione e passione. Mi sommerse di parole per raccontare i suoi progetti (con la g dolce del marcato accento marchigiano). Pubblicai il mio primo articolo su «L’Osservatore Romano» con la cronaca di quella giornata. Già l’impatto con questa importante presenza lasciò una traccia nella mia vita.
Decisivo fu un viaggio che feci insieme a lui nel 1997 in Guatemala, dove la Comunità di Capodarco internazionale aveva uno dei suoi progetti più importanti, nel barrio El Limon di Città del Guatemala. Era uno dei miei primi reportage in America Latina e fu per me uno scioccante “battesimo della povertà”: i bambini di strada che sniffavano colla, la miseria toccata con mano nella pericolosa baraccopoli di El Limon, dove nemmeno i tassisti volevano entrare. Qui un missionario italiano fidei donum faceva il possibile per aiutare gli abitanti, soprattutto indigeni fuggiti a causa della guerra civile e della dittatura conclusasi dopo trentasei anni e 200.000 morti. Vivevano in condizioni prive di ogni dignità. Aprii gli occhi su un mondo ancora sconosciuto, quello delle tante povertà e degli oppressi. Da allora non li ho più chiusi e ne ho fatto una ragione professionale di vita.
Perdemmo la coincidenza aerea a Parigi e rimanemmo lì per una notte. Durante la cena mi raccontò la sua storia incredibile, in un turbine di parole che mi stravolse. Scoprii come nel 1966, durante un pellegrinaggio a Lourdes con uno dei famosi “treni bianchi”, il giovane prete entrò in crisi. Decise che un certo modello di assistenzialismo andava ripensato, che bisognava restituire dignità alle persone con gravi disabilità. Quell’esperienza lo cambiò per sempre.
Insieme a tredici persone con disabilità, tra cui Marisa Galli, don Franco fondò nel 1966 la sede centrale della Comunità, a Capodarco, nelle Marche, ristrutturando una villa abbandonata. Il primo nome della casa fu “Centro comunitario Gesù risorto”. Il tema della Resurrezione gli era particolarmente caro. Tutta la cittadinanza si mobilitò per donare cibo, coperte, lenzuola. Capodarco diventò una comunità di vita basata sull’autodeterminazione e la condivisione. Si viveva insieme, si condividevano gioie e dolori, si litigava, ci si riappacificava. I primi matrimoni in Italia tra persone con disabilità furono proprio a Capodarco. Nacquero i primi figli. Le prime lotte sociali e politiche per emancipare i disabili partirono proprio da lì, come pure una forte attenzione alla comunicazione e al rapporto con i giornalisti. Parole d’ordine: rispetto delle persone, lavoro, progettualità.
Dal 1970 in poi nacquero tante Comunità in Italia ma anche in Ecuador, Albania, Camerun, Kosovo. Monterubbianesi fondò poi l’associazione “Noi ragazzi del mondo” per promuovere il protagonismo giovanile. Anche senza risorse gettava il cuore oltre l’ostacolo e andava avanti indomito, con fatica e dolore ma senza scoraggiarsi mai.
Oggi le Comunità sono tredici in diverse regioni italiane e quattro all’estero: 1226 le persone accolte con 626 lavoratori e 430 volontari. Oltre ai disabili accolgono persone con disagio psicologico, madri e minori bisognosi di aiuto, tossicodipendenti. Negli ultimi anni don Franco ha ricevuto numerosi riconoscimenti per il suo impegno a favore dei più deboli, tra cui il Premio nazionale “Per amore del mio popolo” del Comitato Don Peppe Diana. Prima di morire stava pensando ai giovani. Lavorava al libro Gli ultimi miei 20 anni di resistenza per trasmettere loro l’importanza della solidarietà e dell’impegno civile. Con lui se ne va una storia, un’epoca.
I funerali si svolgeranno giovedì 29 maggio alle ore 15 nel Duomo di Fermo.