· Città del Vaticano ·

La città siriana vive oggi una drammatica realtà fatta di mine e ordigni inesplosi

La bonifica di Palmira
dieci anni dopo l’Is

 La bonifica di Palmira  dieci anni dopo l’Is  QUO-118
22 maggio 2025

di Francesca Merlo

A dieci anni dalla distruzione della città siriana di Palmira, Patrimonio dell’Unesco, ridotta in un cumulo di macerie dal sedicente stato islamico (Is), che la occupò per circa un anno, questo vivace snodo dell’antica Via della Seta oggi sconta una letale eredità della guerra civile, rappresentata da mine e da ordigni inesplosi che infestano le sue macerie e il deserto che la circonda. E la vita di chiunque possa desiderare di tornare, all’orizzonte di una nuova alba politica, è minacciata.

Damian O’Brien è il direttore nazionale delle operazioni di HALO Trust in Siria, organizzazione umanitaria non governativa impegnata principalmente nella eliminazione delle mine antiuomo e di altri ordigni esplosivi residuo dei conflitti.

Ad oggi non è stata ancora condotta una identificazione di mine, di ordigni e di altri residuati bellici, tantomeno una mappatura della loro possibile ubicazione, si susseguono però gli incidenti che colpiscono le persone che tentano di rientrare in città, la cui area non è stata ancora censita.

Palmira, fulcro del patrimonio siriano, in passato ha fornito molti posti di lavoro e, spiega O’Brien, «come molti luoghi in Siria, dovrà essere reinsediata e ricostruita, il che richiederà molto tempo». La prova che attende è imponente, proprietà private e infrastrutture, come in gran parte del Paese, sono in rovina. «Tornare è una sfida che scoraggia molti siriani», indica ancora O’Brien, anche perché molti abitanti, dopo aver trascorso anni all’estero, potrebbero esitare a rientrare senza garanzie di stabilità, lavoro o servizi di base. A differenza di Aleppo, dove alcune aree sono ancora vivibili, la città moderna di Palmira è completamente inabitabile. Ma oltre a quella della ricostruzione, la lotta più importante da affrontare è quella della rimozione dei resti letali lasciati nel suo suolo.

Situata nel deserto, a metà strada tra la capitale Damasco e il confine iracheno, Palmira è circondata da vaste aree scarsamente popolate e contaminate da mine e ordigni esplosivi. A differenza del nord-ovest del Paese, dove i fronti sono stati chiaramente tracciati e mappati dall’esercito siriano, la Siria centrale e orientale presenta un quadro più complesso. «Intorno a Palmira — approfondisce il direttore di HALO Trust — il controllo è passato tra diversi gruppi armati. Non abbiamo visto le mappe di queste aree, quindi il rilevamento sarà molto più impegnativo».

In assenza di documenti chiari, dunque, ogni pezzo di terreno dovrà essere valutato con attenzione. «Non tutti gli ordigni esplodono come previsto — descrive O’Brien — potrebbero ancora esserci granate, mortai e persino armi sganciate dal cielo nascoste nelle case e negli edifici». Senza una totale bonifica, chiunque decidesse di tornare rischia di subire una violenza simile a quella dalla quale fuggì 10 anni fa.

«Alcune persone hanno perso la vita, altre maneggiano gli esplosivi senza una formazione, con l’equipaggiamento sbagliato, e questa è la strada verso il disastro». I rilevamenti e le bonifiche devono avvenire in modo conforme agli standard internazionali, prendere scorciatoie equivarrebbe a mettere a serio rischio i civili, il che oltre ad essere pericoloso, «rappresenterebbe una negligenza criminale».

Di fatto, però, sul terreno esiste una urgenza non più procrastinabile, le famiglie per ragioni diverse, cercano di rientrare in aree ancora contaminate. Le scarse risorse a disposizione degli sminatori non assicurano che si possano raggiungere i dispositivi prima che lo facciano le persone. E il tasso di incidenti in questo momento, avverte ancora O’Brien, «è orribile».

L’impegno di HALO Trust si basa sulla responsabilizzazione dei siriani stessi per guidare lo sforzo di bonifica. Si procede con l’addestramento di squadre locali e le si equipaggia. Tuttavia, il tutto «richiede fondi, risorse e garanzie di sicurezza sostanziali» e anche un addestramento «di settimane, se non di mesi», che rende necessario anche il sostegno delle autorità locali. «Il governo di Damasco — prosegue O’Brien — è stato di grande aiuto. Il piano dell’organizzazione è di mobilitare rapidamente le squadre in gran parte del Paese. È l'unico modo per rendere sostenibile la ripresa».

In aggiunta alle mine e alle famigerate bombe a grappolo, a rappresentare il pericolo maggiore per i civili sono anche le armi pesanti non protette che, se dovessero cadere nelle mani sbagliate, potrebbero «riaccendere il conflitto». Al tempo del suo arrivo in Siria, lo scorso dicembre, i bordi delle strade si mostravano pieni di «detriti militari, tra carri armati, missili, batterie di razzi. Da allora alcuni di questi sono stati rimossi, ma molti sono ancora presenti».

Ciò che apre alla speranza che presto si possa uscire da questo pericolo è la volontà dei siriani di voler ricostruire il loro Paese, determinati a fare il lavoro da soli. Ad oggi, ciò di cui si ha maggiormente bisogno sono «investimenti e fiducia», conclude con cauto ottimismo O’Brien, che sottolinea come, i siriani, pur essendo stanchi per i trascorsi 15 anni di guerra, «siano ancora in piedi» e come, con il giusto sostegno, i campi minati, come le ferite della guerra stessa, potrebbero un giorno essere sepolti per sempre.