· Città del Vaticano ·

Intervista al vescovo agostiniano Luis Marín de San Martín

Chiavi di lettura
per un pontificato che inizia

 Chiavi di lettura  per un pontificato che inizia  QUO-115
19 maggio 2025

di Lorena Pacho

Il vescovo agostiniano Luis Marín de San Martín, sottosegretario della Segreteria Generale del Sinodo, ha provato un’emozione particolare lo scorso 8 maggio, quando ha sentito pronunciare il nome del nuovo Papa. Per il presule madrileno sessantaquattrenne Leone XIV è un amico, un fratello, un compagno di cammino. Conosce perfettamente i suoi valori, il suo impegno, le sue sensibilità e il suo stile di governo. Monsignor Marín è infatti giunto a Roma nel 2008, su richiesta di Robert Francis Prevost, allora priore generale degli Agostiniani, per occuparsi dell’Archivio generale dell’ordine e partecipare a diverse commissioni della Curia agostiniana. Per cinque anni hanno condiviso la stessa casa, facendo parte della stessa comunità a Roma, vedendosi ogni giorno, il che ha permesso loro di approfondire la loro amicizia. Quando gli impegni di Prevost lo hanno portato in altre parti del mondo, sono rimasti in contatto. Durante il ministero episcopale a Chiclayo, l’attuale Pontefice ha chiamato in più occasioni Marín in Perú, affidandogli la formazione del clero.

Quest’ultimo ha condiviso momenti e tappe fondamentali della vita e del ministero del nuovo Papa. In questa intervista ai media vaticani il vescovo spagnolo offre preziose chiavi di lettura per comprendere il pontificato che sta iniziando e il bagaglio intellettuale, spirituale e pastorale di Leone XIV.

Il Papa appena eletto si è presentato come «figlio di sant’Agostino». Quale impronta conferisce l’essere agostiniano? Quali tratti agostiniani vedremo nel suo pontificato?

Il 13 maggio scorso, quando è venuto a celebrare l’Eucaristia nella nostra casa e a pranzare con noi, ha pronunciato parole molto belle: «Dovrò rinunciare a molte cose, la mia vita è cambiata, ma non rinuncerò mai ad essere agostiniano». Quelle parole mi hanno profondamente commosso. Per noi, il fulcro che tiene tutto unito è la comunità, intesa come comunione. Da qui nasce l’insistenza del Papa sulla comunione, sull’unità. Noi intendiamo la comunità non solo come vivere insieme sotto lo stesso tetto o lavorare insieme, ma, come si legge negli Atti degli Apostoli, come avere un cuore solo e un’anima sola in cammino verso Dio. Questo è il filo conduttore che lega ogni cosa.

Quali altri tratti possono essere collocati in questa prospettiva agostiniana?

L’interiorità, la profonda vita di preghiera, l’incontro personale con il Signore. E, al tempo stesso, la presenza nel mondo. La spiritualità agostiniana non è una spiritualità di separazione o di assenza, ma di presenza. Esistono altre spiritualità, diverse dalla nostra, altrettanto belle e importanti, ma noi agostiniani siamo chiamati a uscire nel mondo, a evangelizzare, a stare nel mondo, accanto alla gente, soprattutto con una particolare sensibilità verso i più poveri, verso le questioni sociali, nella lotta per la giustizia, per la pace. Ci caratterizza anche l’amore per la Chiesa. Gli agostiniani sono aperti a ogni forma di apostolato, pronti a fare ciò che la Chiesa richiede loro. Ecco perché abbiamo parrocchie, università, ospedali, pastorale carceraria, missioni.

Quali sono stati i primi segnali di Leone XIV che ci consentono di intravedere le priorità del suo pontificato?

Li riscontriamo già nel nome stesso scelto che richiama Leone XIII, un Papa che seppe leggere i segni dei tempi. I tempi cambiano, e oggi lo fanno a una velocità impressionante. Non si tratta, dunque, di rispondere a sfide che forse non esistono più, o di continuare a vivere in un mondo ormai tramontato. È fondamentale comprendere quali siano le sfide del nostro tempo. Inoltre, Papa Pecci avviò la Dottrina sociale della Chiesa, con una spiccata sensibilità verso i più svantaggiati e verso il mondo del lavoro. Accanto a ciò, vediamo in lui una forte insistenza sulla pace. Opera sempre in spirito di comunione, creando legami, integrando, mai partendo dal confronto o dallo scontro. È una persona che costruisce ponti. Lo è sempre stato: da religioso, vescovo e cardinale ha cercato di unificare e integrare. È un uomo di Dio per il nostro tempo.

In che modo ritiene che l’esperienza pastorale di Prevost in Perú abbia plasmato la sua visione della missione della Chiesa oggi?

Il suo spirito missionario affonda le radici in diverse fonti. La prima è la sua famiglia, sempre molto coinvolta nella vita parrocchiale e nella comunità cristiana. Un’altra fonte risiede nella spiritualità agostiniana, che è una spiritualità di missione, di testimonianza, di uscita. E, in terzo luogo, la sua esperienza personale. Partì per le missioni giovanissimo, svolgendo per molti anni il ruolo di formatore dei sacerdoti agostiniani a Chulucanas, in Perú. Quell’epoca è stata particolarmente significativa. Ha sempre coltivato una forte sensibilità missionaria. Successivamente si è trasferito a Chiclayo. Pur essendo statunitense di nascita, ha trascorso gran parte della sua vita fuori dal Nord America. Non è uno che resta a casa: è uno che parte, che si reca in altre culture, fino al punto di assimilarsi e integrarsi perfettamente nella cultura in cui si trova a vivere.

Come interpreterebbe il suo stile di governo episcopale a Chiclayo e anche durante il suo mandato di priore degli agostiniani? Quali tratti di quello stile possono riflettersi nel suo modo di governare la Chiesa universale?

È un uomo dalle idee molto chiare. Ha una mentalità da matematico e da canonista. È estremamente ordinato, instancabile nel lavoro, riflessivo. Non prende mai decisioni alla leggera. Medita, riflette e prega. È una persona che, fedele allo stile agostiniano, lavora sempre in équipe. Questo è l’ambito in cui si è formato e che ha sempre vissuto. Il suo stile di governo è sempre stato improntato a una grande capacità di ascolto. È un uomo che sa ascoltare, ascolta molto e ascolta opinioni diverse. Ciò non significa che sia d’accordo con tutte, ma le ascolta e dialoga. Sa governare. Prende decisioni, ma sempre in uno stile dialogico. È ciò che ha sempre fatto nella sua vita. A Chiclayo ha favorito una grande partecipazione, ha promosso la sinodalità, la corresponsabilità di tutti, la partecipazione attiva dell’intera comunità.

Una delle chiavi di lettura toccate nel suo primo discorso è stata la sinodalità. Come l’ha vissuta e applicata fino ad ora?

È un uomo profondamente sinodale. Ma non pratica una sinodalità politica, bensì una sinodalità ecclesiale. E non si tratta soltanto di una sinodalità teorica, ma anche pratica, concreta, che deve incarnarsi nella vita, nelle strutture e nello stile della Chiesa. Nella sua diocesi ha promosso fin dall’inizio corsi sulla sinodalità per spiegarne il significato e si è sempre impegnato attivamente nei processi sinodali. E continuerà a svilupparla.

Quale ruolo assegnerà Leone XIV ai laici, alla luce della sua esperienza?

Il ruolo che corrisponde loro in quella prospettiva sinodale che scaturisce dalla comunione e che assume la forma di una corresponsabilità differenziata. Non dobbiamo aspettarci che clericalizzi i laici, né che laicizzi il clero. Ognuno secondo la propria missione. Pertanto, a partire dall’uguaglianza di tutti nel battesimo, riconoscendo che è il battesimo a renderci membra di Cristo. Formiamo un’unità: non ci sono migliori o peggiori. Ma occorre rispettare la diversità di vocazioni, di carismi, di ministeri. Sarebbe assurdo che un vescovo volesse servire la Chiesa come laico, o che un laico volesse farlo come presbitero. Ognuno secondo la propria vocazione, secondo la missione a cui è stato chiamato. Un altro aspetto importante, che il Papa continuerà a coltivare come ha sempre fatto, è mettere in interconnessione tutte queste diverse vocazioni, carismi e ministeri. È necessario entrare in relazione, aiutarci reciprocamente, interconnetterci, illuminarci, camminare insieme. Questa interconnessione tra tutti i membri della Chiesa rappresenta una sfida, ma lui arriva ben preparato, poiché vi ha dedicato grande attenzione lungo tutta la sua vita.

Robert Francis Prevost ha avuto un ruolo rilevante nella Conferenza episcopale peruviana per promuovere la Commissione per la Protezione dei Minori. Il tema degli abusi lo preoccupa? È per lui una priorità?

È un tema che lo preoccupa profondamente e sul quale si è mostrato molto chiaro fin dall’inizio. La sua storia personale lo conferma. Vanno inoltre sottolineate le recenti dichiarazioni dell’attuale vescovo di Chiclayo e della Conferenza episcopale del Perú su questo tema. Non vi è alcun dubbio. È sempre stato accanto alle vittime. Sempre. E ha rispettato scrupolosamente tutti i protocolli. Il suo modo di procedere è stato irreprensibile. È stato uno dei pochi che è sempre rimasto al fianco delle vittime, sin dal primo momento. Le stesse vittime lo hanno sottolineato: «È sempre stato accanto a noi»; è stato uno dei pochi che fin dall’inizio ha saputo accompagnarle. Grazie a lui, è stata fatta giustizia.

Ritiene che proseguirà sulle orme tracciate dal suo predecessore, Papa Francesco?

Mi piace usare l’espressione «continuità nella discontinuità». È stato Francesco a scoprire la brillante e ricca personalità di Robert Francis Prevost. Lo ha nominato vescovo di Chiclayo, lo ha chiamato a Roma come prefetto del Dicastero per i Vescovi, lo ha creato cardinale, lo riceveva frequentemente… È un uomo di Francesco. Condivide questa linea. Entrambi sono figli del Concilio Vaticano ii. C’è una continuità in tutti questi processi di rinnovamento di una Chiesa sinodale, missionaria, in uscita, la Chiesa della misericordia, la Chiesa che invoca la pace e che si impegna per la pace nel mondo, la Chiesa della corresponsabilità. C’è una continuità, ma nella discontinuità. Non è una fotocopia: ha un suo stile proprio. Sarà un grande leader nel mondo. La sua voce sarà ascoltata. Sarà una voce autorevole in questo mondo così bisognoso di figure che siano veri punti di riferimento.