· Città del Vaticano ·

Sul recente documento della Commissione teologica internazionale

Il Simbolo di Nicea
finestra spalancata
sull’immensità

 Il Simbolo di Nicea finestra spalancata sull’immensità  QUO-114
17 maggio 2025

di Armando Nugnes

Il recente documento della Commissione teologica internazionale (Cti), in occasione dei 1700 anni dal Concilio di Nicea, Gesù Cristo, Figlio di Dio, Salvatore, continua a offrire numerosi e stimolanti spunti per una ripresa delle principali questioni che animano il dibattito teologico anche oggi. Fra i tanti elementi che si impongono all’attenzione del lettore, colpisce nella prima parte del documento la scelta del termine “immensità” che quasi cadenza e struttura l’esposizione in sintesi della fede battesimale, nella versione dei Concili di Nicea e Costantinopoli. Perché parlare di “immensità”? A ben vedere nella scelta di questo termine appare il tentativo di provare a comunicare con un linguaggio maggiormente accessibile, secondo la sensibilità attuale, il cuore del messaggio che i 318 Padri hanno voluto dare ai cristiani di ieri e di oggi. Immenso può essere allora inteso come sinonimo di “trascendente” o di “infinito”? Del resto, potrebbe essere questa un’operazione simile a quella operata nel contesto del Concilio niceno quando si scelse di fare ricorso a un termine “estraneo” al linguaggio biblico (homooúsios) per riaffermare e approfondire una verità di fede: la proclamazione di Gesù il Cristo come Figlio di Dio e Salvatore.

In effetti riconoscere il Figlio come consustanziale al Padre equivaleva a dichiarare che la pienezza della verità sulla sua identità personale risiedeva nel riferimento costitutivo e irrinunciabile al mistero di Dio, il Padre. In questo senso, il Figlio è immenso quanto lo è il Padre e lo Spirito. Infatti «la rivelazione nel Cristo della paternità di Dio manifesta anche l’immensità del Figlio e dello Spirito. Se Dio Padre dona tutto, tranne la sua paternità, ciò significa che il Figlio e lo Spirito sono pienamente uguali al Padre nella loro divinità» (n. 11). Ma, non senza sorpresa, il linguaggio dell’immensità, come un’onda che procede in modo progressivo e inarrestabile, arriva a lambire anche le rive dell’umano. Infatti il documento della Cti definisce immensa non solo la «salvezza offerta agli uomini» ma la nostra stessa «vocazione umana». Cosa c’è di immenso anche nella nostra esperienza umana?

Dichiarare immense queste realtà vuol dire riferirle all’ambito del “mistero”. Il testo della Commissione teologica internazionale è dunque coraggioso proprio perché, attraverso la finestra dischiusa grazie al linguaggio dell’immensità, richiama la relazione fondamentale tra la teologia e il mistero. La teologia ha a che fare con il mistero. È questo un punto nient’affatto scontato, in un tempo in cui, giustamente, si vuole porre l’accento sulla necessità di una teologia maggiormente attenta alla vita concreta, alla prassi e alle sue dinamiche. Il mistero cristiano, infatti, non riguarda solo le realtà trascendenti ed eterne, separate dall’evolversi della storia con le sue contraddizioni. È anche il mistero della storia dell’umanità e della Chiesa inserita nel misterioso progetto d’amore del Padre, secondo la visione della Lettera agli Efesini. Una teologia che rimanda al mistero non rinnega la storia, non si rinchiude in sofismi e speculazioni autoreferenziali. L’immensità del Figlio proclamata a Nicea ci chiede di non sottovalutare l’eccedenza di Cristo su Gesù e l’eccedenza del Logos stesso. Proprio questa considerazione è stata la base per ampliare le prospettive del raggio di azione salvifica di Cristo, nell’insegnamento del Vaticano II, riprendendo l’ipotesi teologica dei Semina Verbi avanzata da Giustino in altro contesto. Il linguaggio dell’immensità proclama la non riducibilità di Dio alla realtà finita ma anche dell’altro a me stesso. L’immensità così si fa custode di quell’eccedenza, o se si vuole di quello “scarto” (per adottare il linguaggio di Jullien), che custodisce l’altro in quanto tale.

Semper major: per ben dieci volte nel documento ricorre quest’espressione ma a ben vedere essa non è limitata al richiamo dell’ineffabilità del mistero di Dio. Proprio perché da questo “mistero”, inteso in senso paolino, l’umanità e la sua storia non sono separati, estraniati, ma pienamente coinvolti. L’uomo stesso è un mistero che come tale trova decifrazione solo alla luce del mistero di Cristo, come ha insegnato autorevolmente il Vaticano II (cfr. Gaudium et spes, n. 22). In effetti ciò che aveva destato la viva reazione della parte “ortodossa” alla lettura di Ario era la paura di perdere il “Salvatore”. La famosa espressione, tradizionalmente attribuita ad Atanasio, «Mi ha rubato il mio Salvatore» rivela la paura che la salvezza cristiana non possa introdurre pienamente nella vita divina ma in qualche suo surrogato, in qualche versione approssimativa. E qui c’è un altro punto rilevante, ovvero il legame inscindibile tra l’immensità del mistero del Dio Uno e Trino e l’immensità della salvezza di cui facciamo esperienza.

Tutto questo appare ancora più lampante se la vita trinitaria è presentata secondo la dinamica di dono. Nel generare il Figlio il Padre dona tutto se stesso. E lo Spirito è dono d’amore del Padre e del Figlio riversato in noi (cfr. Romani, 5) che ci fa sperimentare in modo diretto la vita divina. Fin dai tempi di Ilario e poi Agostino, il linguaggio del dono è stato adottato per spiegare l’ineffabile dinamica che caratterizza le relazioni eterne tra le persone divine. Una dinamica che richiama «l’identità nella differenza della communio divina d’amore» (Gisbert Greshake, Il Dio unitrino, 236).

La chiave per comprendere Nicea e Costantinopoli e più in generale i grandi concili della Chiesa antica non può essere il rimando a questioni teologiche raffinate staccate dal vissuto ecclesiale ed esistenziale. Il mistero del Dio trinitario, lungi da essere qualcosa che «non ha assolutamente alcuna importanza per la pratica» (come in qualche modo aveva sentenziato un gigante del pensiero moderno come Kant), diventa una cifra per interpretare l’enigma dell’esistenza umana. Alcuni studi negli ultimi decenni hanno provato a collocare l’insegnamento dottrinale dei primi concili nel più ampio contesto del vissuto spirituale e sociale della Chiesa dei primi secoli e nella visione antropologica che si andava sviluppando. Per questo motivo la scelta della Cti di presentare il simbolo di fede nella versione cosiddetta niceno-costantinopolitana, che abbiamo assunto nella liturgia, se può sollevare qualche perplessità secondo un approccio storico-critico, sembra voler evidenziare proprio la centralità dell’argomento soteriologico. È la domanda sulla salvezza che spinge a interrogarsi sull’identità del Figlio di Dio. È il “per-noi” che orienta tutta la vita di Cristo, la chiave di volta che sorregge tutta l’architettura dell’argomento teologico. È quella stessa domanda che richiese negli anni tra Nicea e Costantinopoli di chiarire il profilo divino del terzo della Trinità; quello Spirito che rende attuale e viva la salvezza in noi.

A ben vedere questo spalancarsi di orizzonti sull’immensità di Dio è reso possibile, allora, dall’esperienza di amore infinito. L’amore-agàpe è la chiave di comprensione del monoteismo cristiano, ricordando che «il cristianesimo è fondamentalmente un monoteismo, che si pone in continuità con la rivelazione fatta a Israele» (Gesù Cristo, Figlio di Dio, Salvatore, n. 9). Amore è la parola prima e ultima sul mistero del Dio Uno e Trino, quella che meglio di tutte le altre riesce a rendere conto della coesistenza di unità di pluralità di identità e relazione, esser-per sé e essere-per-l’altro. L’annuncio del Dio di Gesù Cristo diventa così performativo di una rinnovata prassi, di un nuovo modo di intendere le relazioni tra gli uomini e il modo di costruire la società, come spazio di vera fraternità tra gli uomini (cfr. Gaudium et spes, n. 37). Come aveva ricordato qualche anno fa la lettera Placuit Deo, la salvezza si manifesta in un nuovo “ordine di relazioni” (cfr. n. 4). Questa lettura “ampia” del testo di Nicea, secondo una prospettiva che pone al centro la domanda sulla “salvezza”, riesce a far superare quel pregiudizio, in parte ingiusto, che fa associare al primo Concilio ecumenico una svolta irreversibile della teologia che l’avrebbe portata sempre più a staccarsi dall’aderenza al vissuto esistenziale dei credenti.

Il linguaggio dell’immensità utilizzato per parlare non solo delle tre persone divine ma anche dell’uomo e della sua vocazione alla salvezza può essere un interessante chiave d’accesso per una teologia che, proiettata nel voler comunicare il kerygma secondo il linguaggio del nostro tempo, non ceda alla facile lusinga di una “riduzione” o un appiattimento sulla dimensione “materiale”. In realtà la stessa Commissione teologica internazionale ha provato a continuare quell’opera di «metafrasi pneumatologica» (n. 115) che essa attribuisce ai Padri di Nicea. Quell’operazione che, secondo Grillmeier, nell’ellenizzare il linguaggio aveva de-ellenizzato il contenuto. È la perenne opera di “traduzione” della teologia. È proprio il richiamo alla salvezza come esperienza di relazione con Cristo che riesce a indirizzare una teologia ancorata al vissuto esistenziale, radicata nella storia umana di Gesù di Nazaret, ma con le ante della finestra spalancate sull’orizzonte dell’immensità del mistero.