
di Sergio Valzania
Nel suo La gloria dei buoni a nulla dal sottotitolo Guida spirituale per accogliere l’imperfezione, edito dalla LEV, il domenicano Sylvain Detoc scrive, a proposito del rapporto di Dio con ciascun uomo, «Dio riprende instancabilmente questa pasta in lavorazione, nella speranza che non si solidifichi prima di aver raggiunto la forma e lo splendore che ha sempre voluto darle».
La metafora dell’artigiano che si ingegna a portare a termine in modo esemplare il lavoro intrapreso nonostante la resistenza che più o meno volontariamente la materia prima, le donne e gli uomini, ciascuno e collettivamente, gli oppongono, è molto efficace. Come lo è la memoria che nell’immagine si affaccia dell’argilla primigenia con la quale Adamo è stato creato e alla quale sarà costretto a tornare, per uscirne infine per una via alla quale possiamo credere, ma non comprendere.
Ciò che mi colpisce di più in questa frase è però l’assegnazione a Dio della virtù della speranza, che siamo soliti attribuire, e dunque riservare, a donne e uomini. Di fronte all’onniscienza, che senso può infatti avere la speranza?
Eppure, se esiste una similitudine tra Dio e donne e uomini, niente può esserle estraneo, neppure quelle virtù che san Paolo sembra dirci destinate a spegnersi nel momento della rivelazione piena «quando staremo faccia a faccia con Dio».
Invece mi pare bello pensare che la pazienza, e ancora di più la speranza, siano presenti al fianco della misericordia nella personalità divina. E che non manchi in essa neppure la fede, indirizzata verso le possibilità della propria creatura. Tanto da incarnarsi per incontrarla nella sua dimensione. È per questo insieme di aspettative, che Dio evidentemente giudica ben riposte, che alle donne e agli uomini è richiesto di collaborare alla propria salvezza.