Il Concilio ecumenico

di Michel Fédou
Il 1700° anniversario del Concilio ecumenico di Nicea ha dato origine a un prezioso documento della Commissione teologica internazionale: Gesù Cristo, Figlio di Dio, Salvatore. Questo documento, promulgato il 3 aprile scorso, è importante per diversi motivi. Nel suo primo capitolo propone una lettura “dossologica” del Simbolo niceno-costantinopolitano che invita a celebrare insieme l’«immensità» delle Persone divine, di Cristo Salvatore, della salvezza offerta all’umanità e della nostra vocazione umana; in questo contesto, insiste sul legame della Chiesa con il popolo dell’antica Alleanza e sottolinea anche la portata ecumenica del Concilio di Nicea (con la sua richiesta di una data comune per la celebrazione della Pasqua). Nel secondo capitolo mostra come il Simbolo niceno sia fonte e nutrimento per la preghiera, la predicazione, la catechesi e la liturgia cristiane. Nel terzo capitolo spiega in che misura il Concilio di Nicea sia stato un “evento” per la testimonianza resa a Cristo, per la novità introdotta nel pensiero umano e per la sua dimensione specificamente ecclesiale. Infine, nell’ultimo capitolo, riflette sulle «condizioni di credibilità del mistero cristiano», evidenziando in particolare il ruolo della Chiesa come autentica interprete della verità e la sua responsabilità di vigilare sul deposito della fede, a servizio specialmente dei “più piccoli”.
Ciascuno di questi temi meriterebbe di essere sviluppato singolarmente ma ci si concentrerà qui su una sezione del capitolo 3 in cui Nicea viene presentato come «evento di Sapienza». Con quest’ultima espressione il documento intende mostrare che il Concilio del 325, per il modo stesso di rendere testimonianza all’“evento Cristo”, segna un vero e proprio punto di svolta nel pensiero umano e che è quindi un «evento culturale e interculturale»: il che è di grande significato per la riflessione contemporanea sul rapporto del cristianesimo con le culture dell’umanità. Innanzitutto riconosce che il Simbolo di Nicea arricchisce e amplia la ragione umana. È proprio questa la posta in gioco nelle parole “sostanza” (ousia) e “consustanziale” (homoousios) usate dal Concilio. Certo, questo linguaggio è stato talvolta visto come il segno di una “ellenizzazione” che ha rotto con il linguaggio originale della Rivelazione evangelica. Ma in realtà l’uso di questo linguaggio ha permesso di dire ciò che nessun pensatore greco era stato in grado di dire fino ad allora, cioè che un uomo della nostra storia è inseparabilmente il Figlio di Dio, «generato non creato», e radicalmente unito a suo Padre. Come si legge nel documento, il Simbolo di Nicea dà così accesso a «una nuova ontologia, misurata dalle dimensioni del Dio uno e trino e del Logos incarnato» (81). Contribuisce anche al rinnovamento dell’antropologia perché, per il fatto stesso che l’uomo Gesù è il Figlio di Dio, ogni essere umano riceve una nuova dignità (82). Infine, poiché il Simbolo di Nicea dice del Figlio di Dio che «si è fatto uomo» e che «ha sofferto», invita a cambiare la nostra comprensione dell’“onnipotenza” del Dio uno e trino: questa onnipotenza è infatti «identica all’amore che si è manifestato in Gesù Cristo» (83).
Ma non è solo il pensiero a essere fecondato in questo modo, è la cultura umana in senso più ampio. L’uso della parola homoousios non deve essere visto come una semplice concessione all’ellenismo; piuttosto attesta positivamente la preoccupazione di raggiungere una determinata cultura — in questo caso quella greca — perché, come ha scritto Papa Francesco, «la grazia suppone la cultura, e il dono di Dio si incarna nella cultura di chi lo riceve» [Evangelii gaudium, 115 (il documento della Commissione teologica internazionale su Nicea cita questa frase nel paragrafo 84)]. Il rapporto tra Rivelazione e cultura non è a senso unico: da un lato, infatti, ancor prima di essere raggiunta dal messaggio cristiano, la cultura è già abitata da una certa attesa di Dio (come riconoscevano i Padri della Chiesa quando parlavano dei semina Verbi); dall’altro, una volta accolta la Rivelazione, la cultura stessa contribuisce ad arricchire l’espressione della fede, ed è proprio quello che è successo con l’introduzione della parola homoousios per esprimere l’identità del Figlio di Dio.
Il documento aggiunge qui un’importante precisazione: «In questa assunzione della cultura, un posto unico e provvidenziale deve essere riservato al rapporto tra la cultura ebraica e quella greca» (86). Questa affermazione non è stata sollecitata solo dall’uso della parola homoousios a Nicea: i secoli precedenti avevano già attestato il rapporto tra l’una e l’altra cultura; gli stessi scritti del Nuovo Testamento erano stati redatti in greco e, ancor prima dell’era cristiana, la Bibbia ebraica era già stata tradotta in questa lingua. Il documento riconosce quindi «una dimensione fondatrice in questo innesto della cultura greca sulla cultura ebraica» (86). Naturalmente non dimentica che il cristianesimo antico si esprimeva anche in altre lingue, come il siriaco o l’armeno. Al contrario, richiama l’attenzione sull’importanza dell’“interculturalità”. Correttamente intesa, l’interculturalità non significa né una semplice “giustapposizione” di culture né, al contrario, la loro «fusione in un tutto indistinto» (87); essa si fonda in realtà sul piano di Dio manifestato nell’evento della Pentecoste, secondo il quale i credenti di lingue diverse ricevono, attraverso lo Spirito, la comunione in Cristo.
Il riferimento al Concilio di Nicea rimane comunque essenziale, non nel senso che esso elimini la necessità di esprimere la fede in lingue diverse dal greco ma nel senso che questa stessa traduzione può trarre ispirazione dal lavoro svolto un tempo da questo Concilio: «Da un lato, si tratta in effetti di sottolineare che è proprio in queste categorie greche che si è espressa in modo normativo la Chiesa e che queste sono dunque solidali per sempre col deposito della fede. D’altra parte, tuttavia, nella fedeltà ai termini sorti in quest’epoca e trovando in essi la sua radice viva, la Chiesa può inspirarsi ai Padri di Nicea per cercare oggi espressioni significative della fede nelle differenti lingue e nei vari contesti» (89).
Con il Concilio di Nicea, dunque, siamo davvero in presenza di un «evento di Sapienza» che ha una portata culturale e interculturale. In linea con l’“evento Gesù Cristo” a cui si riferisce, il Simbolo niceno è testimone di qualcosa di veramente nuovo, ed è proprio questa novità che il linguaggio homoousios esprime a suo modo. Il documento osserva che l’errore di Ario, come le varie “eresie” che hanno segnato la storia della Chiesa, può essere visto come una resistenza fondamentale a tale novum (90). Grazie a questo documento, in ogni caso, è chiaro che il Simbolo di Nicea, oltre alla sua importanza dottrinale e alle sue implicazioni per la vita dei credenti, contribuisce a far luce sul rapporto del cristianesimo con la cultura greca e, attraverso questa, sul rapporto della Rivelazione cristiana con le culture del mondo.