· Città del Vaticano ·

A tre anni dalla morte il fratello ricorda la giornalista Shireen Abu Akleh

Il diritto di avere giustizia

 Il diritto di avere giustizia   QUO-109
12 maggio 2025

di Roberto Cetera

Sono passati tre anni da quando Shireen Abu Akleh, giornalista cristiana, palestinese naturalizzata statunitense, popolare volto televisivo di Al Jazeera, è stata uccisa durante un raid dell’esercito israeliano nel campo profughi di Jenin, in Cisgiordania. Ma ancora oggi giustizia non è stata fatta. Israele ha negato per molto tempo ogni responsabilità per l’assassinio della giornalista, ammettendo solo più tardi che possa essere stata colpita accidentalmente, e non intenzionalmente, da un proiettile israeliano. I funerali di Shireen, cattolica melkita, svoltisi a Gerusalemme alla presenza di migliaia di persone, furono il teatro di una violenta aggressione da parte delle forze di sicurezza israeliane che volevano impedire che si trasformassero in una manifestazione contro il regime di occupazione, e suscitarono una forte indignazione a livello internazionale. «Non si era mai visto prima d’ora un funerale caricato dalla polizia», ricorda padre Ibrahim Faltas, vicario della Custodia di Terra Santa: «Shireen era una donna di grande fede, non solo una brava professionista ma anche una donna dal cuore grande che ha fatto tanto bene ai più sofferenti del popolo palestinese. Il suo funerale durò una settimana, girando tutte le città della Palestina, da Jenin a Ramallah, da Betlemme a Gerusalemme est. Ci siamo conosciuti nel 1992 e da allora non ci siamo mai persi di vista».

Abbiamo raggiunto a New York Antony Abu Akleh, fratello di Shireen, che ricorda con commozione e rabbia quei giorni tragici: «Non c’è stata alcuna vera inchiesta sulla morte di mia sorella da parte israeliana e devo dire che, per come si sono comportati fino a oggi, se pure ci fosse non potremmo mai accettare le loro conclusioni di parte. C’è invece un’inchiesta condotta dal dipartimento della giustizia statunitense che spero concluda presto i suoi lavori arrivando all’identificazione dei responsabili di quel criminale evento». Nei giorni scorsi è stato acquisito un video inedito che consentirebbe l’identificazione del soldato israeliano che sparò contro i giornalisti quella mattina. «Mia sorella era una donna solare che amava la vita, il suo popolo, il suo lavoro. Amava viaggiare, conoscere e mischiarsi tra la gente, aveva una grande curiosità: era l’orgoglio della nostra famiglia. Vivere accanto a lei è stato un dono per la nostra famiglia; ho un’infinità di ricordi di momenti bellissimi trascorsi insieme, ricordi che ogni giorno mi tornano nella memoria. Era una donna di profonda fede, come tutti noi, e mi consola il pensiero che oggi si trovi in un mondo di pace, più bello di quello che si vive nella Palestina occupata», osserva Antony.

La tragica sorte toccata a Shireen è stata antesignana di una strage di giornalisti avvenuta in questi mesi. «Più di duecento giornalisti sono stati uccisi a Gaza — continua Abu Akleh — e questo non solo per noi ma per l’intero mondo è molto doloroso e allarmante. C’è un carico di violenza tra i soldati che spaventa. Solo ieri è stato pubblicato un video inedito, dopo tre anni, dove si vede distintamente il soldato che ha sparato a Shireen ed è lo stesso riconosciuto responsabile di altri omicidi a Jenin. Questo documentario peraltro getta una luce d’ombra su una possibile intenzionalità nell’assassinio di mia sorella. È molto triste per noi che Israele non senta alcun rimorso per la tragedia che ci è stata procurata. Solo con un’intervento deciso della comunità internazionale sarà possibile arrivare all’accertamento della responsabilità e alla fine di questo atteggiamento di impunità che Israele vanta».

La popolarità di Shireen tra la popolazione era molto alta: «Sì perché lei era una delle poche donne giornaliste arabe a seguire i drammi del conflitto in ogni parte, città e villaggi, della Palestina occupata, così come le reazioni in Medio Oriente, in Europa, negli Stati Uniti. Perciò era entrata nel cuore di molti. Alla fine era diventata veramente la voce della Palestina, la voce di quanti soffrono le terribili condizioni dell’occupazione. Tra essi, la voce mite e sofferente dei cristiani in Terra Santa, a cui si sentiva particolarmente legata per la sua profonda fede».