· Città del Vaticano ·

L’omelia del cardinale Fernández nella messa in San Pietro per il sesto Novendiale

Il Papa lavoratore appassionato
della sua missione

 Il Papa lavoratore appassionato della sua missione  QUO-100
02 maggio 2025

«Un lavoratore» che ha vissuto la sua missione «con passione»: con queste parole il cardinale Víctor Manuel Fernández, già prefetto del Dicastero per la Dottrina della Fede, ha ricordato un tratto peculiare di Papa Francesco. Ieri pomeriggio, 1° maggio, festa liturgica di San Giuseppe lavoratore, il porporato ha celebrato in San Pietro, all’altare della Confessione, la messa nel sesto giorno dei Novendiali in suffragio del compianto Pontefice, del quale ha ricordato anche il gesto di porre le suppliche sotto l’immagine di san Giuseppe, per chiederne l’intercessione. Il rito, al quale è stata invitata in particolare la Curia Romana, è stata concelebrato anche dai porporati presenti nell’Urbe per prendere parte alle Congregazioni generali in vista del conclave. Al momento della preghiera eucaristica, al celebrante principale si sono uniti all’altare i cardinali Lazzaro You Heung-sik e l’agostiniano Robert Francis Prevost, già prefetti rispettivamente dei Dicasteri per il Clero e per i Vescovi. La liturgia della Parola, in lingua italiana, è stata scandita dalla prima Lettura tratta dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani (14, 7-9.10b-12) e dai Salmi 114 e 115 «Camminerò alla presenza del Signore nella terra dei viventi». Il Vangelo proclamato è stato quello di Giovanni (6, 37-40). Durante la preghiera dei fedeli, sono state elevate particolari intenzioni per il defunto vescovo di Roma, affinché il Signore gli doni «la ricompensa dei servi buoni e fedeli»; e per «le persone sole, afflitte e moribonde», perché il Padre «per intercessione di san Giuseppe, apra a tutti la via della speranza e della vita eterna». Ecco il testo dell’omelia pronunciata dal cardinale Fernández.

In questa Pasqua Cristo ci dice: «Tutto ciò che il Padre mi dà, verrà a me... La sua volontà è che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato». Che immensa dolcezza hanno queste parole.

Papa Francesco è di Cristo, appartiene a Lui, e ora che ha lasciato questa terra è pienamente di Cristo. Il Signore ha preso Jorge Bergoglio con sé sin dal suo battesimo, e lungo tutta la sua esistenza. Lui è di Cristo, che ha promesso per lui la pienezza della vita.

Sapete con quanta tenerezza parlava di Cristo Papa Francesco, come godeva il dolce nome di Gesù, come buon gesuita. Lui sapeva bene di essere suo, e sicuramente Cristo non l’ha lasciato, non l’ha perso. Questa è la nostra speranza che celebriamo con gioia pasquale sotto la luce preziosa di questo Vangelo di oggi.

Non possiamo ignorare che stiamo celebrando pure la giornata dei lavoratori, che stavano tanto a cuore a Papa Francesco.

Ricordo un video che tempo fa ha inviato per una riunione di imprenditori argentini. A loro diceva: «Non mi stancherò di fare riferimento alla dignità del lavoro. Qualcuno mi ha fatto dire che propongo una vita senza fatica, o che disprezzo la cultura del lavoro». Infatti alcuni disonesti hanno detto che Papa Francesco difendeva i pigri, i fuchi, i delinquenti, gli oziosi.

Ma lui insisteva: «Immaginate se si può dire questo di me, un discendente di piemontesi, che non sono venuti in questo Paese con il desiderio di essere sostenuti, ma con una grande voglia di rimboccarsi le maniche e costruire un futuro per le loro famiglie». Si vede che l’avevano seccato.

Perché per Papa Francesco il lavoro esprime e nutre la dignità dell’essere umano, gli permette di sviluppare le sue capacità, lo aiuta ad accrescere relazioni, gli permette di sentirsi collaboratore di Dio per prendersi cura e migliorare questo mondo, lo fa sentire utile alla società e solidale con i suoi cari. Ecco perché il lavoro, al di là delle fatiche e delle difficoltà, è un percorso di maturazione umana. E per questo ha affermato che il lavoro «è il miglior aiuto per un povero». Per di più «non c’è povertà peggiore di quella che priva il lavoro e la dignità del lavoro».

Vale la pena ricordare le sue parole nel viaggio a Genova. Lì sosteneva che «attorno al lavoro si edifica l’intero patto sociale» e che quando ci sono problemi col lavoro «è la democrazia che entra in crisi». Poi riprendeva con ammirazione quello che dice la Costituzione italiana nell’articolo 1: «L’Italia è una repubblica democratica, fondata sul lavoro».

Dietro a questo amore per il lavoro c’è una forte convinzione di Papa Francesco: il valore infinito di ogni essere umano, un’immensa dignità che non va mai perduta, che in nessun caso può essere ignorata o dimenticata.

Ma ogni persona è così tanto degna, e deve essere presa così tanto sul serio, che non si tratta solo di darle delle cose, ma di promuoverla. Cioè, che possa sviluppare tutto il bene che ha in sé, che possa guadagnarsi il pane con i doni che Dio le ha dato, che possa sviluppare le sue capacità. Così ogni persona è promossa in tutta la sua dignità. Ed è qui che il lavoro diventa così importante.

Ora attenti, diceva Francesco. Un’altra cosa sono alcuni falsi discorsi sulla «meritocrazia». Perché una cosa è valutare i meriti di una persona e premiare i suoi sforzi. Un’altra cosa è la falsa “meritocrazia”, che ci porta a pensare che solo hanno meriti quelli che hanno avuto successo nella vita.

Diamo un’occhiata a una persona che è nata in una buona famiglia ed è stata in grado di aumentare la sua ricchezza, condurre una buona vita con una bella casa, auto, vacanze all’estero. Va tutto bene. Ha avuto la fortuna di crescere nelle giuste condizioni e ha compiuto azioni meritorie. Così, con le capacità e il tempo ha costruito una vita molto confortevole per sé e per i suoi figli.

Allo stesso tempo, uno che lavora con le sue braccia, con meriti uguali o maggiori dovuti agli sforzi e al tempo che ha investito, non ha nulla. Non ha avuto la fortuna di nascere nello stesso contesto e, per quanto sudi, riesce a malapena a sopravvivere.

Vi racconto un caso che non posso dimenticare: un giovane che ho visto più volte vicino a casa mia a Buenos Aires. Lo trovavo per strada, svolgendo il suo lavoro, che era raccogliere cartoni e bottiglie per alimentare la sua famiglia. Quando andavo all’Università al mattino, quando tornavo, e pure di notte lo trovavo lavorando. Una volta gli ho chiesto: «Ma quante ore lavori tu?». Ha risposto: «Tra le 12 e le 15 ore al giorno. Perché ho diversi figli da mantenere e voglio che abbiano un futuro migliore del mio».

Allora gli ho domandato: «Ma quando stai con loro?». Ed ha risposto: «Devo scegliere, o sto con loro o porto loro da mangiare». Nonostante ciò, una persona ben vestita che passava di lì gli disse: «Vai a lavorare pigro!». Queste parole mi sono sembrate di una crudeltà e di una vanità orrende. Ma quelle parole si trovano anche nascoste dietro ad altri discorsi più eleganti.

Papa Francesco ha lanciato un grido profetico contro questa falsa idea. E in diverse conversazioni mi faceva notare: guarda, ci portano a pensare che la maggior parte dei poveri lo sono perché non hanno “meriti”. Sembra che sia più degno quello che ha ereditato tanti beni, di quello che ha fatto lavori pesanti tutta la vita senza riuscire a risparmiare qualcosa e nemmeno a comprarsi una piccola casa.

Per quello affermava in Evangelii gaudium che in questo modello «non sembra abbia senso investire affinché quelli che rimangono indietro, i deboli o i meno dotati possano farsi strada nella vita» (Eg 209).

La domanda che ritorna è sempre la stessa: i meno dotati non sono persone umane? I deboli non hanno la stessa nostra dignità? Quelli che sono nati con meno possibilità devono solo limitarsi a sopravvivere? Non c’è per loro la possibilità di avere un lavoro che permetta a loro crescere, svilupparsi, creare qualcosa di migliore per i loro figli? Dalla risposta che diamo a queste domande dipende il valore della nostra società.

Ma permettetemi di presentare pure Papa Francesco come un lavoratore. Lui non solo parlava del valore del lavoro, ma per tutta la sua vita è stato uno che viveva la sua missione con grande sforzo, passione e compromesso. Per me è stato sempre un mistero capire come poteva sopportare, anche essendo un uomo grande e con diverse malattie, un ritmo di lavoro così tanto esigente. Lui non solo lavorava al mattino con diverse riunioni, udienze, celebrazioni ed incontri, ma anche tutto il pomeriggio. E mi è sembrato veramente eroico che con le pochissime forze che aveva nei suoi ultimi giorni si è fatto forte per visitare un carcere.

Non è che possiamo prenderlo come esempio, perché lui mai si prendeva alcuni giorni di vacanze. A Buenos Aires, d’estate, se non trovavi un prete sicuramente trovavi lui. Quando era in Argentina non usciva mai a cena, al teatro, a passeggiare o a vedere un film, non si prendeva mai un giorno completamente libero. Invece noi, esseri normali, non potremmo resistere. Ma la sua vita è uno stimolo per vivere con generosità il nostro lavoro.

Quello che voglio mostrare però è fino a che punto lui ha compreso che il suo lavoro era la sua missione, il suo lavoro di ogni giorno era la sua risposta all’amore di Dio, era l’espressione della sua preoccupazione per il bene degli altri. E per queste ragioni il lavoro stesso era la sua gioia, il suo alimento, il suo riposo. Sperimentava quello che dice la prima lettura che abbiamo ascoltato: «nessuno di noi vive per sé stesso».

Chiediamo per tutti i lavoratori, che a volte devono lavorare in condizioni poco gradevoli, affinché possano trovare il modo di vivere il loro lavoro con dignità e speranza, e perché ricevano un compenso che permetta loro di guardare avanti con speranza.

Ma in questa Messa, con la presenza della Curia vaticana, teniamo conto che anche noi nella Curia lavoriamo. In effetti, siamo lavoratori che rispettiamo un orario, che svolgiamo i compiti che ci sono stati assegnati, che dobbiamo essere responsabili e sforzarci e sacrificarci nei nostri impegni.

La responsabilità del lavoro è anche per noi in Curia un cammino di maturazione e di realizzazione come cristiani.

Infine, fatemi ricordare l’amore di Papa Francesco verso san Giuseppe, quel forte e umile lavoratore, quel falegname di un piccolo paese dimenticato, che col suo lavoro si prendeva cura de Maria e di Gesù.

E ricordiamo pure che quando Papa Francesco aveva un grosso problema, metteva un pezzetto di carta con una supplica sotto l’immagine di san Giuseppe. Allora chiediamo a san Giuseppe che nel cielo dia un forte abbraccio al nostro caro Papa Francesco.