· Città del Vaticano ·

Fingersi un’altra per sopravvivere

Mevi

 Mevi  ODS-032
17 maggio 2025

di Ilaria De Bonis

«I miei datori di lavoro per quattro anni non hanno saputo niente di me, delle mie origini: non sapevano che vivevo in un campo, che ero una Rom, e che avevo già tre figli. Ero stata assunta da poco come parrucchiera in un grande salone a piazzale Flaminio a Roma, non mi avrebbero mai presa se dicevo che ero Rom! Allora gliel’ho tenuto nascosto».

Mevi la mattina si svegliava molto presto, si vestiva bene, si truccava e usciva dal campo di Castel Romano per prendere il bus che l’avrebbe condotta a Termini e da lì a piazzale Flaminio, dove le signore della “Roma bene” l’attendevano con gioia per un taglio, una tinta, una piega.

La sua storia è una delle più dolorose tra quelle che ho raccolto, ma oramai Mevi è fuori dal tunnel e dal pericolo. A quel tempo nessuno in quel negozio per turisti e clienti dell’alta società immaginava anche solo lontanamente che Mevi fosse originaria della Macedonia, nata nel campo Rom di Tor De’ Cenci, che avesse già tre bimbi e soffrisse un disagio abitativo senza pari. Soprattutto era vittima di violenza domestica. Il suo accento molto pulito, il gusto nel vestire, la silhouette magra e ben fatta, la cura, l’estrema gentilezza con le clienti e la bravura nel maneggiare forbici e spazzola facevano di Mevi l’hair stylist perfetta.

«A loro avevo raccontato che vivevo in una villetta al piano terra col giardino e che avevo anche un cagnolino. Una vita da sogno. Ma non raccontavo bugie, raccontavo solo quello che avrei desiderato».

Aveva 20 anni quando venne assunta, a 16 aveva già avuto la prima figlia, e la sua vita non era stata esattamente idilliaca fino a quel momento. «Mio padre era alcolizzato, un padre assente che picchiava mia mamma. Io ho sempre saputo di avere una grande forza di carattere e un’incredibile curiosità. Volevo conoscere le cose, capire tutto, uscire dalle consuetudini. Mi piaceva andare a scuola, ma ho dovuto lasciare a 13 anni per badare a mia sorella appena nata, perché mia madre aveva partorito da poco. Per due anni ho fatto da madre a mia sorella. Mentre mio fratello stava in una casa-famiglia. Non mi sono potuta iscrivere alle superiori».

Un’intelligenza vispa e senza limiti la sua, che non ha modo di esprimersi da subito nel mondo. Ma Mevi terrà ogni desiderio acceso senza rinunciarvi: nel regno nascosto della creatività alimentava piccoli sogni. Da quelli più accessibili ai più grandi. «Non ho ancora finito di realizzarli, ogni anno aggiungo un pezzo», mi conferma oggi, guardandomi dritto negli occhi, con l’espressione ardita e bella delle giovani donne in ascesa.

Il suo secondo sogno era fare la parrucchiera: «Anche grazie ad una ragazza degli scout che veniva con altri volontari al campo e mi voleva bene, ho convinto i miei genitori a iscrivermi a scuola, ma loro hanno scelto l’alberghiero. Subito dopo sono scappata di casa con quello che sarebbe diventato il padre dei miei figli».

Mevi mi racconta che da adolescente il suo primo pensiero era quello di fuggire via dalla famiglia d’origine, lasciare le urla, le liti, le botte. Crearsi una famiglia tutta sua ed essere amata, pur restando al campo. Senza considerare, però, di poter finire dalla padella nella brace; per una sorta di coazione a ripetere, come capita alle donne che non hanno fatto i conti con il dolore.

Mevi, dunque, scappa da un padre alcolizzato e si ritrova ben presto donna di un uomo violento. «Il mio ex mi chiamava “cane” e mi diceva che non ero capace a fare niente. E io ho iniziato a pensare davvero di non valere. Alzava le mani su di me. Solo il lavoro mi ha fatto cambiare idea», ricorda.

Nel negozio lei cresce, si emancipa e si sente più sicura di sé. Comincia a guadagnare e a mettere da parte dei soldi, si sgancia sempre più emotivamente dal compagno.

«Era geloso e manesco: un giorno del 2017 ha superato il limite, io ho chiamato un centro antiviolenza e ho iniziato a frequentarlo, ma non troppo spesso. Loro stavano a viale Jonio e per un anno e mezzo sono stata in contatto telefonico con queste operatrici. Mi hanno aiutato a dare un nome a quello che mi succedeva in casa. Durante quel periodo ho fatto anche la domanda per ottenere la casa popolare. Avevo già visto quei comportamenti violenti nella mia famiglia d’origine: mio papà faceva lo stesso con mia mamma».

Mentre ascolto la storia di Mevi, tutta assorta e concentrata, seduta al tavolo della sua bella cucina nuova (i bimbi sono in salone a guardare la tv e ogni tanto fanno capolino, ma lei prontamente li allontana perché non sentano), mi dico che non c’è alcuna differenza tra lei e una qualsiasi altra ragazza vittima di violenza domestica in Italia.

L’aggressività fisica e verbale del suo ex compagno ha tutte le caratteristiche della violenza di genere e non c’entra nulla con l’essere un Rom. Né con la povertà. Certo è che vivere in un campo all’interno di una cerchia sociale che stigmatizza la vittima non aiuta ad uscirne.

Nel frattempo, la vita di Mevi proseguiva come sempre: si prendeva cura dei figli, una femmina e due maschi, andava al lavoro tutte le mattine stando ben attenta a non tradirsi; viveva col suo compagno che alternava momenti di grande slancio a scenate di gelosia e botte.

«Quando per l’ennesima volta ha alzato le mani su di me, la mia datrice di lavoro se n’è accorta e mi ha accompagnato in ospedale: lì dentro sono scoppiata a piangere e in quel momento le ho detto tutto».

La verità viene a galla e Mevi racconta ai due proprietari del negozio di essere una Rom e di aver vissuto, da sposata, sia nel campo di Ciampino che in quello della Pontina. La fiducia e l’affetto della datrice di lavoro sono inossidabili. Tutti la apprezzano e la stimano lì dentro, non la giudicano. Ma il primo timore di Mevi non è per nulla infondato: se fin dall’inizio avessero saputo o intuito qualcosa sulle sue origini, non l’avrebbero mai assunta. «La proprietaria mi disse: “Se me l’avessi fatto capire prima, non ti avrei preso a lavorare. Adesso per me è indifferente se sei Rom o no”».

Lei è stata in qualche modo “salvata” dal suo aspetto fisico, così differente da quello delle altre donne, e dalla sua voce, dal suo accento senza inflessioni, dal suo essere “diversa”. Ma anche dall’aver accettato un’istruzione, dall’essere stata “contaminata” dal mondo, dall’aver voluto con tutta sé stessa non soccombere sotto le dure leggi del maschilismo e delle tradizioni castiganti. Mevi è un esempio eccelso di forza di volontà e obiettivi raggiunti. Ma anche del potere della “legge dell’attrazione”: quella legge dell’universo che vuole l’uomo creatore del proprio destino tramite la capacità di attrarre a sé i desideri più impensabili e di costruirsi un futuro con le proprie mani.

«Io me la immaginavo come poi è stata la mia vita fuori dal campo — mi ripete —. La visualizzavo dentro una villetta con i miei figli e gli animali domestici. Mi vedevo autonoma, libera e con la patente!».

Quando l’ho conosciuta nel suo bell’appartamento non lontano dalla Cristoforo Colombo, ho visto una donna in power, una mamma accudente e giusta, in un certo senso una leader.