
di Violante Sergi
È una mattina dal sapore invernale quando nella periferia sud di Roma incontro Carlo Stasolla, fondatore dell’Associazione 21 Luglio, nata nel lontano 2001 con l’obiettivo ambizioso di superare i campi rom. Non faccio in tempo a stringergli la mano che lui già mi fa strada verso il campo di via di Salone, uno dei 5 campi rom ancora aperti a Roma. Prima erano molti di più, precisa l’uomo sulla cinquantina che, a differenza mia, gira senza cappotto, solo col golf.
Mentre camminiamo in fila indiana — qui non ci sono marciapiedi —, Carlo mi racconta alcuni traguardi della 21 Luglio, un’associazione che tempo due, tre anni chiuderà, non perché va male, ma «perché il processo di superamento dei campi è ormai irreversibile».
All’ingresso del campo c’è una macchina della polizia e alcuni agenti che ci salutano. «Fino a pochi anni fa ti chiedevano anche i documenti», mi dice Carlo. «Ora si limitano a stare qui, per sicurezza». Quando quest’uomo dal passo svelto parla di sicurezza, io mi domando: da quale prospettiva sta parlando? Lo so, la sicurezza così come la giustizia dovrebbe riguardare tutti noi, eppure, come quegli agenti all’ingresso del campo sembrano ricordare, esiste ancora un noi e un loro, una barriera, una sbarra, mentale più che fisica, oltre la quale ci schieriamo, noi da una parte, loro dall’altra: sicuri da chi? ci domandiamo, da noi o da loro?
Superato il cancello aperto che introduce al campo di via di Salone, Carlo mi mostra un piccolo spiazzo di cemento. «Qui il sabato i ragazzi giocano a calcetto» mi dice, poi aggiunge: «Questa zona è molto isolata e collegata male: parchi e centri sportivi non sono facili da raggiungere». Lo so, io ho dovuto chiedere un passaggio perché coi mezzi ci vogliono secoli per arrivare fino a qua. Così penso all’esclusione sociale che, in quello dei rom come in altri casi, è il frutto di un’esclusione spaziale, forse non sono loro che non si integrano, forse siamo noi che li cacciamo alla fine del mondo e poi gli diciamo: perché non state insieme a noi?
Proseguendo nel campo vedo alcune baracche bruciate: posso chiamarle baracche, o dovrei dire case o container o moduli abitativi? «Quelle erano le abitazioni di persone che adesso vivono in appartamenti», mi dice Carlo. «Il 94% dei rom in Italia non vive nei campi, ma nelle case, e fa dei lavori normali, come tutti quanti».
Come tutti quanti noi? mi domando mentre seguo quest’uomo di poche parole e molti fatti dentro un container: c’è un tavolo, un paio di sedie, una lampada che, però, non si accende, «manca la corrente». Unico punto di luce dell’abitacolo: i disegni appesi alle pareti. «Qui facciamo il doposcuola», racconta Carlo, io alzo lo sguardo: il soffitto è bassissimo. Mi vengono in mente i container da poco inaugurati nel Tribunale civile di Roma: hanno i soffitti alti, l’aria condizionata, le luci a led, le scrivanie, gli attaccapanni, i computer, le stampanti, gli armadi, le sedie ergonomiche, il collegamento a Internet. La legge è uguale per tutti. E la giustizia? Forse nei container che i rom adibiscono a casa, forse lì i soffitti saranno più alti. «Prima questo posto era una casa», mi gela Carlo. Allora, appendo il cappotto allo schienale della sedia, poi ci ripenso: fa troppo freddo e me lo rimetto. Chissà quante famiglie avranno vissuto qua dentro, chissà per quanti anni, chissà per quanti decenni un numero spropositato di persone — non noi né loro, solo persone — hanno vissuto dentro scatolette dai soffitti bassi e le pareti così grigie che neppure i disegni dei bambini riescono a illuminare.
Carlo, gli dico prendendo carta e penna, parlami un po’ di te, di come è nato il tuo sogno di superare i campi rom. L’uomo che mi siede di fronte inizia a raccontarmi, con voce pacata eppure decisa, la sua storia.
«A 22 anni ho lasciato tutto e sono andato a vivere in un campo rom, per condividere e basta». Ha lasciato la famiglia, gli amici, le abitudini, perfino il nome di battesimo, che non era Carlo — questo l’ha scelto dopo, sull’esempio di Charles de Foucault —, ma c’è una cosa che quel giovane non abbandona mai, una cosa della vita passata che quell’uomo porta con sé: l’Eucarestia. «Ce l’avevo nella mia prima baracca perché un vescovo un po’ folle me l’aveva concessa».
Ma cos’è stato che ti ha spinto a lasciare tutto, gli domando mentre bevo il caffè e mangio i biscotti che un giovane rom ci ha portato. «Ognuno di noi ha i suoi amori, e il grande amore della mia vita, del quale sono sempre stato innamorato e al quale sono chiamato a essere fedele, è il senso di giustizia, che per me significava incontrare chi sta più in basso di me».
L’incontro, penso, questo sconosciuto, poi, come spesso mi capita quando incontro qualcuno di vero, di concreto, che non pensa ai fatti suoi o racconta solo storie, io inizio a pensare a me. Ormai, tutto mi passa accanto, io sono lì che sfreccio, non ho tempo, dico, non ho tempo. Mi guardo attorno nel container, vedo i disegni dei piccoli rom appesi alle pareti: e poi sarebbero loro i nomadi, e noi gli stanziali? Noi che ci spostiamo di continuo casa-lavoro, lavoro-casa e in tutto questo movimento chi incontriamo? A chi diciamo: come stai? come ti senti? «Fin da adolescente — prosegue Carlo — sentivo questa necessità di giustizia, di condividere la vita con chi stava peggio di me, di farmi prossimo a lui». E la tua famiglia, i tuoi amici: come hanno reagito? «Male», risponde l’uomo che pur portando un semplice golf non sente il freddo che, invece, io sento qua dentro, nonostante porti sciarpa e cappotto. «A quei tempi non c’erano i cellulari e andare in un campo significava chiudere con tutti». Qui Carlo fa una pausa, poi riprende: «Poi c’era il problema di spiegarlo». Certo, penso io, e come la spieghi una scelta così folle? Lasciare le comodità, gli agi, le sicurezze della nostra vita, per cosa? Per vivere in una baracca piena di topi e insetti? Poi, mi torna alla mente la regina degli zingari — così la chiamava mia madre —, una regina che viveva in un paesino di mille anime sul litorale adriatico dove andavamo d’estate con la mia famiglia. Quanto avrei voluto conoscerla quella regina, non per il titolo nobiliare, ma solo perché era la regina degli zingari. In quella parola, che ora non si può più dire, c’era per me tutto il fascino di Esmeralda, la libertà dell’Habanera, le rapsodie gitane di Blaise Cendrars, sì, forse quella regina degli zingari — o quegli zingari anche senza regina — rappresentavano una visione idealizzata dell’altro, una visione che vede nei rom un’alterità fatta di fantasia, di libertà, dell’arte di cavarsela sempre, un’alterità che mai avrei immaginato potesse vivere in un posto come questo, mi dico, sbattendo lo sguardo contro il soffitto basso e le pareti grigie del container.
Ma cos’è che ti ha dato la forza per mollare tutto? Carlo ci pensa, poi dice: «Adesso io lo spiego, a distanza di anni, ma a quel tempo la mia era solo una spinta irresistibile che non aveva delle motivazioni. Che potevi spiegare? Che andavi a vivere in un campo rom dove magari creavi altri problemi a chi stava con te, perché c’era una bocca in più da sfamare, una persona in più in un campo già molto denso?». E allora come facevi a sapere che era la strada giusta? «Lo sai e basta, perché è ciò a cui sei chiamato».
La vocazione, la grande reietta. Quante persone ho visto prendere una strada non perché era la loro, ma solo perché era già tracciata. E dove ci ha portato, a noi, quella strada? A un punto morto dal quale mi domando: adesso come si torna indietro? Come si bruciano le baracche del tutto-subito, di una vita, la nostra vita, in cui esistono solo le scadenze e sono svaniti tutti i sogni?
Ma lì come facevi a vivere, gli domando, di cosa campavi? Per anni Carlo ha fatto un lavoro di cui ancora oggi parla con passione: il raccoglitore nei cassonetti. «Un lavoro che ti dà l’abilità nel cercare di capire quello che c’è, quello che non c’è, dove lo trovi, a che ora lo trovi». Mentre quest’uomo dall’aspetto ruvido mi parla, ripenso ai traguardi dell’Associazione 21 luglio cui mi accennava poco prima, mentre raggiungevamo il campo di via di Salone: lo svuotamento, ormai quasi completo, dei campi rom, la scolarizzazione aumentata del 96%, la frequenza scolastica del 94%, l’assistenza medica, lavorativa, documentale, il monitoraggio, la ricerca, la creazione di realtà professionali, tutto questo Carlo l’ha raggiunto partendo da un’abilità appresa raccogliendo nei cassonetti. Incredibile. «Il raccoglitore sa cosa sta cercando e cosa vuole ottenere».
Carlo, gli dico dando un’occhiata all’orologio — tra poco devo andare —, parlami dell’Associazione 21 Luglio che hai fondato con tua moglie nel 2001. «L’associazione è nata con una visione chiarissima: superare i campi rom. Non era un obiettivo generico, ma un sogno concreto, misurabile. Abbiamo lavorato e continuiamo a lavorare su diversi fronti: casa, salute, scuola, lavoro, cittadinanza e lo facciamo con un unico obiettivo: rendere le persone autonome. Il nostro sogno è scomparire, diventare superflui». Scomparire? gli domando. «Sì, un’associazione dovrebbe nascere per morire perché quando un sogno si realizza, bisogna farsi da parte». Io ripenso alle varie associazioni del terzo settore che conosco: farsi da parte? è una cosa che si può dire, che si può immaginare? «È lo stesso atteggiamento di un genitore — riprende Carlo —: fai di tutto perché tuo figlio cammini da solo e, quando ce la fa, tu ti ritiri. Questa è la nostra missione: non creare strutture che si conservano, ma contribuire a trasformare la realtà».
E una volta che la 21 luglio scompare, gli chiedo prima di salutarlo, tu che fai? «Il mio sogno è sempre stato quello della giustizia. La 21 Luglio è il contenitore temporaneo di questo sogno, ma il sogno non finirà con l’associazione, troverà altre forme, altre strade, come il razzo sulla luna che abbiamo disegnato coi bambini e che rappresenta il nostro desiderio di andare oltre, di credere che un altro mondo è possibile».
Nell’uscire dal container guardo i disegni appesi alle pareti grigie e vedo il razzo, e vedo la Luna, e vedo Carlo che da lassù ci saluta tutti, non tutti loro né tutti noi, ma tutti, tutti quelli che sanno che un sogno non è evasione dalla realtà, ma la matrice che consente a quella realtà di farsi più bella, bella come Esmeralda, come la Carmen, bella come io ho sempre immaginato la regina degli zingari.