· Città del Vaticano ·

L’illusione della giustizia

 L’illusione della giustizia  ODS-032
17 maggio 2025

di Guglielmo Gallone

«La mamma mi è apparsa in sogno stamattina. Sembrava stesse bene. Sarò felice se sta bene come nel mio sogno. Mamma, dimostrerò la mia innocenza e tornerò in un futuro non troppo lontano». È il 4 ottobre 1968 quando Iwao Hakamada scrive queste parole alla sorella, 1.143 giorni dopo il suo arresto e mesi dopo la morte della madre, comunicatagli con crudele ritardo. Aveva 30 anni quando fu accusato del brutale omicidio del suo datore di lavoro, della moglie e dei loro due figli. Pugile giapponese dal volto mite e lo sguardo diretto, fu travolto da un’accusa infamante e da un sistema giudiziario implacabile. Da allora comincia la sua vera condanna: 46 anni nel braccio della morte giapponese, 56 in totale dietro le sbarre. Una vita con il fiato della morte sul collo.

Hakamada ha confessato l’omicidio solo 19 giorni dopo l’arresto. Ma quella confessione, si scoprirà poi, fu estorta durante interrogatori estenuanti, lunghi anche 12 ore al giorno. Le prove, compresi gli abiti macchiati di sangue, furono manipolate. Solo nel 2014 Hakamada viene rilasciato in attesa di un nuovo processo. E nel settembre del 2024 arriva il sigillo: è innocente. Due settimane fa lo Stato giapponese gli ha riconosciuto un risarcimento di circa 1,4 milioni di dollari.

Quello di Hakamada non è un caso isolato. È uno squarcio su un sistema che, ancora oggi, in molte parti del mondo, affida alla pena di morte un’illusione di giustizia. Secondo l’ultimo rapporto di Amnesty International, sono 1.518 le esecuzioni capitali registrate nel mondo: il numero più alto dal 2015. Iran, Iraq e Arabia Saudita ne sono i principali fautori. In Iran, quasi mille condanne a morte nel solo anno passato, spesso per reati legati alla droga, considerati “non gravi” secondo il diritto internazionale. Ma non è tutto: Cina, Corea del Nord e Vietnam non forniscono dati ufficiali, ma si stima che migliaia di persone vengano messe a morte ogni anno.

Eppure, un barlume di speranza c’è. Solo 15 Paesi hanno eseguito condanne a morte nel 2024: il numero più basso mai registrato. Zimbabwe e Malaysia hanno intrapreso percorsi legislativi che riducono drasticamente l’utilizzo della pena capitale. In Giappone, Hakamada è libero. Negli Stati Uniti, Rocky Myers ha visto la sua condanna a morte commutata in ergastolo.

Per Elisabetta Zamparutti, tra le fondatrici di “Nessuno tocchi Caino” e promotrice di campagne per l’abolizione della pena capitale, «la speranza nasce proprio nel cuore della notte. Nelle situazioni più estreme. È lì che l’essere umano riesce, a volte, a farsi soggetto di speranza, non solo ad averla». «Sembra un paradosso — racconta al nostro giornale —, ma proprio nei luoghi più bui, nei bracci della morte, abbiamo visto affermarsi la speranza. È lì che, contro ogni logica apparente, si manifesta con più forza. Al nome della nostra associazione abbiamo aggiunto un motto dal Nuovo Testamento, Spes contra spem, tratto dalla Lettera ai Romani. Non è un’idea astratta, è ciò che vediamo accadere nelle carceri di massima sicurezza».

Un cambio di prospettiva potente: non si tratta solo di “avere” speranza, ma di “essere” speranza. Vale anche in uno dei contesti più drammatici, come l’Iran: «È uno degli esempi più evidenti di come la pena di morte venga usata come strumento di potere, un mezzo di repressione politica e sociale travestito da legge sacra. Le quasi mille esecuzioni registrate nel 2024 in Iran non sono frutto di giustizia, ma di una strategia di controllo». Eppure, anche lì, racconta, ci sono segni di resistenza: «Persone che scelgono di non arrendersi, famiglie che lottano, piccoli gesti che testimoniano che un’altra via è possibile».

Ma ciò vale anche nella lotta contro l’idea di una giustizia che cancella la persona. «Dobbiamo riflettere — conclude Zamparutti — sul carcere, su come diventa spesso luogo di cancellazione civile e umana. In Italia, dove la pena di morte è stata abolita da tempo, esistono forme punitive che negano ogni speranza. La speranza non è un lusso morale: è un diritto e oggi è riconosciuto come tale a livello internazionale».

Anche la Chiesa cattolica ha fatto di questa battaglia una delle sue colonne morali. Dopo aver modificato il Catechismo nel 2018 per dichiarare «inammissibile» la pena di morte, Papa Francesco, nella bolla di indizione del Giubileo della Speranza, ha chiesto ai leader mondiali un gesto concreto: fermare tutte le esecuzioni durante l’Anno Santo. La speranza, dunque, è l’unica vera alternativa alla morte. Anche quando sembra impossibile, come per Hakamada, che oggi vive libero, ma in un mondo tutto suo, segnato da un isolamento che ha lasciato ferite profonde. «Decenni di prigionia hanno causato danni irreversibili alla sua salute mentale», racconta la sorella Hideko. Ma lui, nel suo universo interiore, continua a vedere la madre nei sogni. E forse, in quel sogno, la speranza non è mai morta davvero.