Più donne, più laici,

Priora provinciale delle Domenicane della Presentazione dal 2014, teologa morale e presidente della corref, la Conferenza dei religiosi e delle religiose di Francia, suor Véronique Margron ritiene che la sfida principale della smaschilizzazione della Chiesa auspicata da Papa Francesco sia lo sviluppo di una cultura dell’alterità.
Papa Francesco nel 2023 ha lanciato un appello a smaschilizzare la Chiesa: le sembra che questo stia avvenendo?
Le mie osservazioni riguardano essenzialmente la Chiesa in Francia, poiché è qui che vivo e ho ruoli di responsabilità, anche se ovviamente sono in contatto con suore di tutto il mondo. Per quanto riguarda la Chiesa in Francia, siamo di fronte a uno scenario contrastato, in evoluzione, e misto. Da tempo, alcune donne occupano posti di responsabilità importanti nelle diocesi, sia come econome diocesane o responsabili dell’insieme della catechesi, sia come membri di consigli episcopali, almeno da una quindicina d’anni, anche se non è così ovunque. In una decina di diocesi francesi, ci sono delegate – o segretarie – generali, con autorità e poteri piuttosto ampi. Ci sono anche donne a cui è delegata la protezione dei minori. Quindi è vero che si sta avviando un cammino ma è troppo presto per parlare di smaschilizzazione. La situazione è lungi dall’essere catastrofica ma c’è ancora molta strada da fare perché le responsabilità esercitate dalle donne diventino normalità.
Cosa significa secondo lei smaschilizzare? Femminilizzare?
A mio parere si tratta soprattutto di considerare che l’alterità non è solo normale, ma anche indispensabile, e che ci si guadagna integrandola alla governance, altrimenti si resta a porte chiuse, in una forma di auto-isolamento, potenzialmente pericolosa e sterile. L’alterità è un obbligo spirituale, morale. È una necessità vitale e carnale. E questo rispecchia già la realtà concreta, visto che le assemblee domenicali sono composte da uomini e donne, e le donne sono tra l’altro più numerose. Ma riguarda anche l’alterità sacerdoti-laici, uomini-donne, l’alterità sociologica, e pure l’alterità intellettuale, anche se per chi ha responsabilità è sempre difficile circondarsi di collaboratori stretti che la pensino in modo molto diverso. Ma questo orizzonte di un’alterità a più livelli non deve mai essere perso di vista, poiché la sfida fondamentale è che la Chiesa – e la sua governance – assomigli sempre più al popolo di Dio in tutta la sua diversità.
In concreto, come si può procedere su questa questione del soffitto di cristallo? Quali responsabilità andrebbero aperte ai laici in generale e alle donne in particolare?
A livello delle diocesi, per esempio, penso che sia auspicabile la generalizzazione o la moltiplicazione dei delegati generali e dei segretari generali. Poi è necessario che queste persone possano inscriversi nel lungo periodo e che proprio per questo vengano ammesse. Ci vorrà del tempo. Anche le nomine nei consigli episcopali permettono di procedere in questa direzione, a condizione che tali consigli abbiano un vero potere, perché non si tratta di nominare una donna qua e là, per dimostrare che si rispettano le minoranze, tanto più che le donne non sono una minoranza. Capisco bene che ci sono questioni che devono essere trattate solo dai vescovi, ma forse su un certo numero di temi resta un ampio margine di miglioramento nell’attribuzione delle responsabilità. Ciò avviene a diversi livelli allo stesso tempo: le parrocchie, la vita locale, che corrisponde al reale, al quotidiano della vita della Chiesa, ma anche le istanze più simboliche.
Ma come?
Bisogna diffidare dei modelli da imitare e delle risposte semplicistiche: in questo campo penso che nessuno possa ergersi a modello. Tuttavia, come religiosa domenicana, constato che, per quanto concerne le donne, la vita religiosa ha una lunga esperienza nel modello della governance, che risale agli inizi della vita religiosa stessa. Non la ergerei a modello perché ne conosco anche limiti e derive, che possono essere forti tanto quanto quelli degli uomini. Ma mi sembra che questo tipo di governance – nella vita religiosa -, più modesto perché generalmente più passeggero, in quanto è raro restare superiori a vita, e dove i consigli sono obbligatori, sia interessante. Ciò non significa che tutto possa essere copiato dalle diocesi, non avrebbe senso perché si tratta di istituzioni diverse, ma ci sono indubbiamente modalità a cui ispirarsi.
Il rischio di questa riflessione non è di essenzializzare qualità intrinsecamente femminili o maschili?
Certo, non vuol dire che una governance femminile sarebbe a priori meno autoritaria, e che con delle donne al potere tutti i problemi sarebbero risolti. Non è vero, nella società, nella politica e nella Chiesa. Si dice spesso che le donne tendono a essere più concrete, ma non è sempre vero. Conosco fortunatamente molti uomini che hanno un rapporto assolutamente concreto con la realtà. È quindi rischioso voler estrapolare tratti caratteriali che sarebbero propriamente femminili o maschili. Ma penso che avremo fatto un passo avanti quando verranno nominate donne che non devono dimostrare il doppio degli uomini la loro legittimità ad occupare un posto. Siamo tutti immersi nelle nostre culture, impregnate d’influenze che condizionano il nostro modo di essere nel mondo, di essere uomini o donne. In tal senso, l’educazione è fondamentale per normalizzare il fatto che nella società e nella Chiesa uomini e donne sono entrambi capaci di prendere parte alle decisioni e che ci guadagnano entrambi a lavorare insieme. È quindi un bene che ci siano donne che insegnano nei seminari, come già accade, e che siano realmente coinvolte nei processi decisionali.
Lei cita l’esempio della vita religiosa: ma qual è il rapporto tra autorità e superiore generali?
Ovviamente esistono contesti storici di abuso di potere, strutturalmente abusivi fin dalle loro origini, ai quali solo un’autorità ecclesiale superiore può o potrebbe porre fine. Poi ci sono contesti in cui l’abuso nasce in modo più sottile o subdolo, perché una religiosa si ritrova in una situazione di autorità di fronte a un piccolo gruppo di sorelle molto anziane, con un terreno segnato da una cultura dell’obbedienza molto forte e da una mancanza di formazione. Ma la stragrande maggioranza delle superiori generali che incontro sono donne che hanno un grande coraggio perché affrontano le difficili questioni legate, ad esempio, all’invecchiamento delle sorelle, come pure situazioni di guerra dure, con dolorosi casi di coscienza. Per questa stragrande maggioranza, la governance non è pensabile senza concertazione, senza dialogo, senza messa in discussione. Talvolta il problema è addirittura opposto: avrebbero difficoltà a esercitare la loro autorità per paura di essere di abusare.
di Marie-Lucile Kubacki
Responsabile della rubrica Religione de «La Vie»
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