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DONNE CHIESA MONDO

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La mite umanità
contro il piombo

 La mite umanità   contro il piombo   DCM-005
03 maggio 2025

Quando “per un drammatico incrocio di eventi e destini” divenne l’unica donna uccisa dal terrorismo rosso, Germana Stefanini stava conducendo una vita modesta insieme al fratello Carlo in un appartamento della periferia di Roma; una donna nubile, senza vezzi tranne una piccola collezione di saponi profumati, amante del cinema e delle passeggiate con la nipote.

Agli occhi dei terroristi portava una colpa tremenda, quella di lavorare come vigilatrice penitenziaria a Rebibbia in una epoca - era il 1983 -nella quale erano rinchiuse parecchie detenute politiche.

Stefanini fu una vittima presto dimenticata, nonostante la ferita degli Anni di Piombo in Italia sia ancora aperta, e dolente. Fece poco rumore il suo assassinio, in quel periodo sui giornali episodi così venivano derubricati quasi a fatti di cronaca nera.

Una come noi. L’omicidio di Germana Stefanini e l’abisso della lotta armata (Treccani), firmato dal giornalista del «Corriere della Sera» Giovanni Bianconi, autorevole cronista di giudiziaria, riporta ai nostri occhi quel 23 febbraio, quando tre militanti del Potere proletario armato, tre ragazzi di poco più di vent’anni, la attesero davanti la porta di casa e poi la interrogarono nella sua camera da letto, registrando in audiocassette il cosiddetto “processo” a suo carico, e poi la uccisero a colpi di pistola. Durante le sue ultime ore Stefanini fece in modo di salvare la vita a una sua collega e vicina di casa, e con lei l’amata nipote; quella sera trovarono il suo corpo dentro una macchina.

Germana Stefanini morì perché i suoi assassini avevano dichiarato guerra allo Stato e volevano informazioni utili sulle sue colleghe. Ma lei si occupava dello smistamento dei pacchi, curava l’orto del penitenziario e pensava che nel carcere non ci sono delinquenti ma persone che possono sbagliare.

Stride, nella cronaca asciutta di Bianconi, la dimensione umana della vittima contro il furore ideologico dei militanti che la uccisero, convinti di aver colpito lo Stato tramite il corpo mite di una custode penitenziaria. Quarant’anni dopo quegli assassini rimangono ancora in carcere. Una di loro, l’unica donna del commando, è in semilibertà. Bianconi non esplicita mai il nome anagrafico dei tre brigatisti che la uccisero. Una delicatezza nei confronti di chi ha il diritto di uscire dal carcere e ricostruire diversamente il proprio ultimo tratto della strada. E un omaggio alla vera protagonista, medaglia d’oro al valor civile, figura marginale nelle cronache della lotta armata, ora finalmente ritratta con l’attenzione premurosa dei grandi giornalisti.

di Laura Eduati