· Città del Vaticano ·

Il Giubileo delle persone con disabilità
In piazza San Pietro la catechesi dell’arcivescovo Fisichella

Testimoni
del vero amore cristiano

 Testimoni  del vero amore cristiano  QUO-098
29 aprile 2025

di Benedetta Capelli

Ombrelli aperti e tanti cappellini per ripararsi dal sole primaverile, maglie colorate per identificare il gruppo a cui si appartiene. È lo scenario odierno di piazza San Pietro, dove moltissime persone con disabilità, accompagnate da famigliari e da quanti si prendono cura di esse, prendono parte al loro Giubileo e alla catechesi dell’arcivescovo Rino Fisichella, già pro-prefetto del Dicastero per l’Evangelizzazione, al quale Papa Francesco ha affidato l’organizzazione dell’Anno santo in corso.

È il saluto in LIS (lingua dei segni) ad aprire stamane, martedì 29 aprile, il momento di preghiera e di riflessione a cui prendono parte persone che arrivano da 95 Paesi: dal Giappone, dalla Bolivia, dagli Stati Uniti d’America. «Il mondo intero — afferma il presule — oggi è qui». È il Giubileo delle persone con disabilità, è il Giubileo della speranza, quella speranza, afferma Fisichella, che accompagna ognuno al risveglio, di cui non ci si accorge, ma che guida la vita intera. Una fiamma da ravvivare, che alimenta la mente e il cuore.

La speranza vera e non legata alle cose effimere, ricorda il presule, ha il volto di Gesù di Nazareth pertanto l’invito è quello di camminare insieme a Lui, lasciandosi guidare dalla sua Parola, dare testimonianza con i gesti e le scelte di vita perché Lui è la speranza per tutti, nessuno escluso. «Voi siete nel cuore della Chiesa»: assicura Fisichella, riferendosi alle persone più vulnerabili, fragili e deboli che spesso non hanno l’attenzione dovuta. «Nella debolezza — spiega — bisogna trovare la nostra vocazione nella Chiesa, la debolezza è uno strumento per amare ancora di più. Fate della disabilità la forza dell’amore che si dona a tutti, nessuno più di voi può dare testimonianza dell’amore cristiano».

L’invito dell’arcivescovo è di non voltarsi dall’altra parte: «troppo tempo siete stati nell’ombra, questo è il momento di ravvivare la speranza»; perché quanti vivono una debolezza sono testimoni dell’amore di Cristo.

Fisichella poi racconta la storia di un bimbo nato in una famiglia nobile nel 1013 in Svevia. Un bimbo disabile e deforme che viene affidato ad una comunità di monaci. Si chiamava Erman, non riusciva a parlare né a scrivere, ma i frati comunque lo accolsero con affetto. Imparò il latino, il greco, la matematica, la musica e anche l’arabo, poi morì a causa di una pleurite. «Sapete perché vi ho raccontato questa storia?» chiede l’arcivescovo, «perché Erman scrisse il Salve Regina», una preghiera di fede nata da un ragazzo disabile che «ha sperimentato cosa era la vera speranza, la vera fede e l’amore per Maria, madre di misericordia». Perciò, conclude Fisichella, non bisogna mai darsi per vinti, «diventate più creativi, gioiosi, capaci di comunicare la speranza che è dentro di voi».

Infine il canto corale, proprio in onore di Erman, del Salve Regina in tutte le lingue delle persone presenti in piazza. Dopo il momento di preghiera lo spazio ad alcune testimonianze. Dal Kerala, in India, attraverso un video, il vescovo Mar Jose Pulickal, dell’eparchia di Kanjirapally dei siro-malabaresi, racconta l’esperienza di Angels’ village che offre opportunità di istruzione, formazione e riabilitazione a oltre duecento bambini con disabilità mentale.

Alessio Carparelli e Barbara Racca, genitori di due figli di 22 e 15 anni entrambi con autismo grave, ricordano la sofferenza vissuta nel momento della scoperta della disabilità dei loro bambini. «La disabilità — confida Alessio — ha frantumato il nostro progetto di famiglia, abbiamo chiesto aiuto, imparato a riprogettare la nostra vita, a vivere di nuovo e non più a sopravvivere». Barbara esprime la sua speranza: che ognuno riesca a guardare l’altro senza fretta, offrendo un sorriso: «non corriamo sempre nella quotidianità e nel lavoro, fermiamoci sempre».

Annamaria, Mario, Raffaele e Lavinia raccontano le loro storie, tutti arrivano dalla parrocchia romana dei santi Martiri dell'Uganda. La prima ha 20 anni, studia all’università, spiega di aver perso sua sorella Eliana, disabile, alcuni anni fa. È schietta, decisa, ci tiene a dire che è lì sul sagrato di San Pietro come catechista e non come famigliare di un disabile. Ha chiaro nella testa che l’inclusione di un adulto è spesso caratterizzata dalla pietà o dall’assistenza; quella di un bambino è accoglienza, amicizia e anche amore. Invita così a far crescere i bimbi insieme, disabili e non, perché solo crescendo insieme si può cambiare lo sguardo. Toccante anche l’esperienza di Raffo, che non parla ma ha la voce di Lavinia. Ha 13 anni, nella sua testimonianza spiega che sembra strano ma capisce, osserva, comprende. Riferisce della bellezza della sua parrocchia, di Papa Francesco e delle scarpe nere che indossava fino alla fine, segno della sua dedizione agli altri. «Anche io come lui — scrive — vorrei consumare le mie scarpe per aiutare gli altri».