
di Andrea Monda
È l’ultima immagine che abbiamo visto. La sua nuca. La mattina di Pasqua, dopo aver impartito la benedizione Urbi et Orbi il Papa è sceso e ha attraversato in macchina piazza San Pietro, come ha sempre fatto in questi dodici anni. Una barchetta in mezzo alle onde della gente. Le riprese televisive erano da dietro e quindi, per quei lunghi minuti, quello che tutti abbiamo visto è stata la sua nuca. E anche con quella nuca il Papa ha parlato, comunicato. Ad un certo punto, ad esempio, la mano del suo segretario lo ha toccato proprio lì, sul collo, massaggiandolo per qualche lungo secondo, come a voler sciogliere un’improvvisa, minacciosa, rigidità. Un gesto che ci ha ricordato quello che ha fatto il Papa per dodici anni: ha cercato di sciogliere le rigidità di una Chiesa e di un mondo come intorpiditi dal freddo. Il suo predicare incessantemente la misericordia ha significato questo: ungere un organismo irrigidito e ridargli vita, calore, energia. Per fare questo il Papa la sua di energia l’ha data fino all’ultimo grammo. Ma quella nuca è stata “eloquente” anche sotto un altro aspetto. Per dodici anni abbiamo visto il Papa di faccia, negli occhi. Anzi, era lui che ci guardava e noi potevamo solo “ricambiare” lo sguardo. Perché il “faccia a faccia” per Bergoglio era fondamentale, in quanto sosteneva che guardarsi negli occhi rende impossibile mentire e permette la vera comunicazione che è innanzitutto relazione, comunione. Occhi negli occhi: è qui la forza, la magia, dell’incontro. La vita per un cristiano, così come fu per Gesù, è una serie di incontri. Del resto come ricordava Oscar Wilde, «le cose più importanti della vita non si insegnano né si apprendono, si incontrano». Per dodici anni il Papa è andato incontro al mondo con il suo sguardo accogliente, acuto e dolce, caldo e incoraggiante, incalzante, chiedendo a sua volta il nostro sguardo, la nostra risposta. Anche quando davanti a lui c’erano migliaia di persone, riusciva a sintonizzarsi con ciascuno e a stringere un rapporto speciale, una relazione comunicativa vera, profonda. Lo abbiamo visto così per questi dodici anni, faccia a faccia.
Domenica no, l’ultimo giorno lo abbiamo visto di nuca. Se prima il suo viso era rivolto verso di noi, per intrattenere una conversazione lunga dodici anni, ora che è giunto al traguardo ecco che il suo volto si discosta da noi per guardare da un’altra parte, avanti, avanti e in alto. Il gesto ricorda i quadri di Caspar David Friedrich nei quali la figura umana è ripresa di spalle e guarda verso un orizzonte, invitando a fare lo stesso. Noi guardiamo con i suoi occhi, e guardiamo avanti, verso il futuro. Francesco ci ha ricordato che non era lui quello verso cui guardare, perché «al centro della Chiesa non c’è la Chiesa» come ha detto il 13 settembre 2021 a Bratislava. Il luogo a cui guardare è un’altra persona, è Gesù e ora il volto di Francesco può farlo finalmente sciolto, leggero e libero. Per il Papa in quel momento hanno risuonato i versi di un noto premio Nobel per la letteratura: «Ho vinto il mio passato / Il futuro alfine è qui / Sono all’ingresso / di un nuovo mondo che riesco a vedere» o, ancora di più, i versetti della lettera di san Paolo ai Filippesi: «Dimentico del passato e proteso verso il futuro, corro verso la meta per arrivare al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù» (Fil 3, 13-14). La vita di Francesco è stata una corsa, prima insieme a noi, quando ci guardava faccia a faccia, come fa il pastore che veglia sul suo gregge, ora che ha allungato il passo ha ripreso a guardarci con la stessa fiducia incoraggiante per ricordarci che non siamo soli e il futuro non deve farci paura.