· Città del Vaticano ·

Benedizione dell’incontro, per discutere di pace in Medio Oriente e nel mondo

Le storie
non lasceranno l’uomo

 Le storie non lasceranno l’uomo  QUO-094
24 aprile 2025

di Colum McCann

Sarà un uomo sul quale si narreranno molte storie, non solo adesso, ma anche oltre la vita di tutti noi. È segno di un bravo essere umano che le storie su di lui saranno varie. Ma è un segno rilevante che le storie evocate riguarderanno sempre gli altri. Papa Francesco ha spesso detto che come esseri umani aneliamo a un mondo nuovo.

Ho diverse storie degli ultimi anni, quando ho avuto la grande benedizione di incontrare Papa Francesco, ma ce n’è una che spicca in modo particolare, quando, la scorsa estate, ha invitato in Vaticano una piccola delegazione per discutere della narrazione e della pace in Medio Oriente.

La nostra delegazione, composta da cinque persone, si è incontrata vicino agli appartamenti papali, nel Cortile del Belvedere in Vaticano. Abbiamo camminato su sanpietrini inumiditi dalla pioggia caduta in precedenza. Siamo stati accolti all’ingresso e ci hanno guidati verso gli ascensori. Era un edificio immacolato, ben curato, dal soffitto alto. Svoltando un angolo siamo rimasti sorpresi nel vedere una grande opera d’arte sulla parete. Alta due metri, aveva la forma di un crocifisso. C’è voluto un po’ per rendersi conto che la croce gigante era fatta di resina trasparente e che il “corpo” sulla croce non era affatto un corpo, bensì un giubbotto di salvataggio arancione.

L’opera era appesa vicino all’ingresso delle stanze personali del Papa, impressionante simbolo dei profughi del mondo. Un giubbotto di salvataggio, molto probabilmente appartenente a un profugo africano salvato in mare, o forse addirittura annegato, al posto di Cristo o in tandem con Lui. Abbiamo così capito di essere lì per incontrare una persona che deteneva le storie di altri.

Della nostra delegazione facevano parte un cristiano palestinese, un musulmano palestinese e un ebreo israeliano. Siamo rimasti a lungo in anticamera, mentre altri gruppi entravano e uscivano dalla porta. Il tempo è rimasto sospeso. Eravamo l’ultima delegazione, in tarda mattinata. Papa Francesco si è alzato dalla sedia per stringerci la mano. Era «profondamente commosso» di incontrarli, ha detto. Erano una parte importante del movimento di pace, non solo in Medio Oriente, ma in tutto il mondo.

Poi si è seduto per ascoltare. La cosa più straordinaria era il modo in cui le parole sembravano penetrarlo. Visceralmente. Tranquillamente. La sua era una presenza gentile, ma anche incandescente. Sembrava accettare le parole come se fossero doni. Una fitta di dolore gli ha attraversato la fronte mentre i suoi ospiti parlavano di occupazione, genocidio, apartheid. Gli oscuri abissi della condizione umana dei quali lui stesso aveva spesso parlato. Voleva sentirli per sapere che cosa dire correttamente al resto del mondo. Mi è parso di non aver mai visto accogliere le parole in quel modo. Le brutali realtà. Il filo comune del dolore. L’angoscia del non detto. L’ignoranza. La disinformazione.

Voleva sentire tutto questo per sapere che cosa avrebbe potuto dire, in un altro momento, ad altre persone nel mondo. Quando finalmente ha parlato, lo ha fatto tranquillamente, con attenzione, compassione e sorprendente umiltà. Per le frasi comuni — «grazie di essere venuti», «le vostre storie mi commuovono» — ha usato l’inglese, ma per ciò che voleva dire davvero si è rivolto a un interprete spagnolo. «Voi ci ricordate che abbiamo ancora luce, anche nei momenti più bui». «I pacificatori devono abbracciarsi per primi». «Avete la capacità di portare un cambiamento nella storia».

Ha fatto anche dell’umorismo. Quando è stato suggerito che poteva essere un buon candidato alla presidenza degli Stati Uniti, ha sorriso tranquillamente e poi ha detto: «Non sono sicuro che sarebbe una benedizione».

Trovarsi davanti a una presenza del genere è stato un grande dono, non solo per la qualità del momento stesso, ma anche per ciò che suggeriva che sarebbe potuto seguire: la lotta per qualsiasi sorta di impegno pacifico in un mondo in frantumi. Mi ha ricordato un verso della poesia araba: «C’è qualche speranza che questa desolazione ci possa recare conforto?».

Scendendo siamo di nuovo passati davanti all’opera d’arte. Era diventata più crocifisso che scultura. Il giubbotto di salvataggio, naturalmente, rappresentava chiunque l’avesse portato, ma rappresentava anche la vita delle famiglie che la delegazione palestinese e israeliana aveva visto perduta, o nell’attuale regno di terrore o nell’indifferenza globale.

Nell’angolo del soffitto a volta sopra il crocifisso c’era una piccola crepa nell’intonaco. La pittura era gonfia e bollosa. Questo, di per sé, era incredibile in un tale edificio: ci si aspettava di non trovarvi nemmeno una macchia. Ma non solo, la crepa nel muro aveva permesso che s’infiltrasse dell’acqua. Mentre lasciavamo l’edificio, ci parve che l’esterno stesse cercando l’interno e che l’acqua cercasse il giubbotto di salvataggio. Era come il verso della canzone Anthem di Leonard Cohen: «C’è una crepa in ogni cosa, è così che entra la luce».

In realtà per alcuni che criticavano Papa Francesco quel crocifisso era controverso. Alcuni critici conservatori dicevano che egli stava «deificando i poveri e gli emarginati». Ma non era una cosa alla quale Papa Francesco avrebbe risposto. Aveva benedetto il crocifisso nel 2019. Aveva abbracciato il suo significato più ampio. Sapeva.

In un incontro precedente, nel 2023, lo avevo sentito dire a un gruppo di duecento artisti: «Cari amici, sono felice di questo incontro con voi. Prima di salutarvi, ho ancora una cosa da dirvi, che mi sta a cuore. Vorrei chiedervi di non dimenticarvi dei poveri, che sono i preferiti di Cristo, in tutti i modi in cui si è poveri oggi».

Quello odierno è un tempo di lutto profondo. Cerchiamo conforto. Arriverà. La grazia e la solidarietà saranno sempre ricordate. L’uomo può anche essersi lasciato dietro le storie, ma le storie non lasceranno l’uomo.