
di Francesca Romana
de’ Angelis
Testimone della pace, della speranza, della giustizia sociale, dell’accoglienza, dell’ascolto, del dialogo, del rispetto per la Terra. Non solo. Papa Francesco è stato anche testimone di un umanesimo integrale e di una cultura al servizio dell’uomo. In un’epoca come la nostra dominata dalla velocità e dalla semplificazione, che ha visto il progressivo declino dei modelli, spazzati via da un pensiero spettacolarizzato e privo di profondità teorica, Papa Francesco ha rappresentato un importante, e forse non ancora pienamente riconosciuto, riferimento culturale. A spiegare le intuizioni fondanti del suo pensiero una splendida immagine: «La cultura (...) è come un grande fiume: collega e percorre varie regioni della vita e della storia, mettendole in relazione, permette di navigare nel mondo e di abbracciare paesi e terre lontane».
Relazione, la prima parola della sua galassia-cultura, introduce un concetto ampio e vitale della conoscenza come spazio dove cercare la verità e confrontare le idee. Nella consapevolezza che ogni forma di conoscenza ha la sua dimensione etica, Papa Francesco accoglie questo profondo legame tra sapere e valori. Cultura come spirito di servizio, come bene per lo sviluppo individuale e per la coesione sociale, come capacità di una visione alternativa. In altre parole, cambiare sguardo dove occorra e avere coraggio nel raddoppiare i passi per non restare indietro, quando il presente accelera tanto da diventare già futuro.
Una volta declinato l’intellettuale-legislatore che poneva al centro il proprio sapere per esercitare un ruolo prescrittivo, Papa Francesco ha saputo come pochi leggere il mondo globalizzato con quella visione ampia dell’intellettuale-interprete, teorizzato da Zygmunt Baumann, che si dedica alla comprensione della realtà e all’ascolto delle percezioni e delle esigenze degli uomini del suo tempo.
Quello di Papa Francesco è stato un costante appello a umanizzare il sapere, a «disarmare le nostre parole, a disarmare gli sguardi», a pensare alla scienza come «speranza per l’umanità» e «risorsa per costruire la pace». La seconda parola è infatti accoglienza. Citando don Milani, «perdendo i poveri si perderebbe la scuola», ha teorizzato una cultura capace di sconfiggere la tentazione dello scarto — i deboli, i fragili, i dimenticati —, di raggiungere tutti ampliando il perimetro delle esperienze, di muoversi dalle periferie, di risalire dal basso. Cultura di libertà, non funzionale a occupare spazi di potere o di prestigio, ma patrimonio di idee condivise che si diffondono e trasmettono in uno spirito di comunità.
Il terzo elemento fondativo è la capacità di emozione. Conoscere, scoprire, sapere sono fonti inesauribili di stupore. Come la creatività che non è solo invenzione, ma capacità coinvolgente di innovazione. Anche credere, aggiungeva Papa Francesco, «è emozionarsi davanti a Dio, davanti alla sua creazione, davanti agli altri esseri umani». Se la vecchiaia, come scriveva Natalia Ginzburg, è diventare la seppia che con l’inchiostro tinge il mare di nero o precipitare «nell’immobilità della pietra», Papa Francesco ha conservato fino all’ultimo la gioia dello stupore e dunque un’intatta giovinezza di cuore.
Ebbi la conferma dell’intensità del suo rapporto con il mondo della cultura quando lessi la splendida Lettera sul ruolo della letteratura nella formazione che nell’agosto del 2024 indirizzò a futuri sacerdoti, agenti pastorali e a tutti i cristiani. Per chi vuole «entrare in dialogo con la cultura del suo tempo o semplicemente con la vita delle persone concrete, la letteratura diventa indispensabile». Del resto, amava ricordare le parole del prediletto scrittore Jorge Luis Borges: «Un libro è una delle occasioni di felicità che abbiamo noi uomini».
Conferma ho detto, perché avevo scoperto quanto Papa Francesco fosse avanti a molti nel suo rapporto con il mondo della cultura tempo prima, quando ebbi il dono di incontrarlo. In occasione del Giorno della Memoria del 2021 avevo intervistato la scrittrice Edith Bruck, sopravvissuta alla deportazione nei campi di Auschwitz, Dachau, Bergen-Belsen. Il Papa, letta l’intervista, volle conoscerla. Era il mese di febbraio quando arrivò nella casa di Edith, nel cuore di Roma. Sorridente, amabile, familiare, quel giorno Papa Francesco, tra una tazza di tè e una fetta di dolce alla ricotta, parlò di tutto. La vita in Argentina, il cinema, la vecchiaia, i libri più amati, la poesia. Emozionata da quell’incontro, ero rimasta in silenzio ad ascoltare. Poi si rivolse a me e io gli raccontai che ero a San Pietro il giorno della sua elezione. Piazza pienissima, un pomeriggio rigido, pioveva a tratti, niente della dolcezza dell’aria che Roma regala con tanta generosità. Accanto a me un signore messicano con tre bimbi infreddoliti e stanchi che chiedevano con insistenza quando sarebbe arrivato il Papa. Per distrarli aprii un sacchetto di caramelle che avevo acquistato per mia madre. Le caramelle ottennero l’effetto sperato. Ripresero quieti ad aspettare. A un tratto il più piccolo — 4 anni mi aveva detto e aveva aggiunto con un bel sorriso soddisfatto quasi 5 aprendo la mano a ventaglio — tirandomi per la manica dell’impermeabile mi disse tutto felice: «Signora, signora è arrivata la cicogna che porta il Papa!». Alzai lo sguardo. Davanti al comignolo un grande gabbiano in volo. Tempo qualche secondo, la fumata bianca. Papa Francesco si emozionò a quel racconto e parlò della fantasia dell’infanzia, una delle meraviglie della vita disse, con una luce di gioia negli occhi e una tenerezza che mi commossero.
Questo gesuita colto e sensibile che sapeva parlare con naturalezza e semplicità e che aveva scelto di chiamarsi Francesco per chiarire fin dal nome che era dalla parte degli ultimi, se ne è andato con un congedo gentile che tanto gli somiglia, un saluto e una benedizione al mondo, come sempre nessuno escluso, lasciandoci delle chiavi di lettura da cui non si può tornare indietro. Certo è difficile consolarsi di averlo perduto e dolore e nostalgia riempiono oggi i cuori di tanti. Quando, dopo i sentimenti impetuosi dei primi momenti, arriverà il tempo del ricordo dovremo custodire con fedeltà la sua grande lezione morale.
La sera dell’incontro con Papa Francesco, tornata a casa, scrissi una poesia che gli dedicai e che si concludeva così: «Insieme a te / diremo della terra / che prova a rifiorire, / dei sentimenti da custodire nel cuore, / dei sogni di cui riempire gli occhi, / di quella goccia di bene / che ogni giorno lasceremo cadere/ fino a farne un mare». Sono tempi tristissimi dove sembra che il male possa prevalere e aver perduto la sua voce mai stanca di parlare di pace, di speranza, di giustizia, di fraterna convivenza, fa sentire tutti più soli e più indifesi.
Una goccia di bene, ciascuno di noi per quello che può. Per dirgli grazie, per non dimenticarlo, per restare umani.