
di Roberto Pasolini*
Fratelli e sorelle,
al centro del Triduo Pasquale palpita un cuore, quello del Venerdì Santo. Tra il bianco della Cena del Signore e quello della sua Risurrezione, la liturgia interrompe la continuità cromatica tingendo di rosso tutti i paramenti e invitando i nostri sensi a sintonizzarsi sulle tonalità intense e drammatiche dell’amore più grande.
L’intelligenza della Croce
Oggi la liturgia ci invita al silenzio e al raccoglimento, perché è il giorno in cui lo Sposo ci è tolto. Nel Venerdì santo la Chiesa si ferma in adorazione e contempla non il fallimento di Dio, ma il suo misterioso trionfo in una forma paradossale, quella della croce, come già annunciavano le scritture profetiche: «Ecco, il mio servo avrà successo, sarà onorato, esaltato e innalzato grandemente» (Isaia 52, 13).
In un tempo come il nostro, così ricco di nuove intelligenze — artificiali, computazionali, predittive — il mistero della passione e morte di Cristo ci propone un altro tipo di intelligenza: l’intelligenza della Croce, che non calcola, ma ama; che non ottimizza, ma si dona. Un’intelligenza non artificiale, ma profondamente relazionale, perché interamente aperta a Dio e agli altri. In un mondo in cui sembrano essere gli algoritmi a suggerirci cosa desiderare, cosa pensare e persino chi essere, la Croce ci restituisce la libertà di una scelta autentica, fondata non sull’efficienza, ma sull’amore che si consegna.
Per questo la liturgia ha preso avvio in un’atmosfera di grande silenzio e di sofferta solennità: con i ministri sdraiati a terra e l’intera assemblea raccolta in preghiera. Questi atteggiamenti sono necessari per riconoscere nella passione di Cristo quell’intelligenza di amore in cui si condensa la salvezza del mondo.
Nei giorni della sua vita terrena egli offrì preghiere e suppliche,
con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo da morte
e, per il suo pieno abbandono a lui, venne esaudito (Ebrei 5, 7-9).
Non si può che restare attoniti e sgomenti di fronte a queste parole. Ma come «esaudito»? In che modo ascolta Dio le preghiere più sofferte e disperate? Se il Padre non ha risparmiato la morte al suo Figlio, come si comporterà con noi quando gli offriremo tutte le nostre lacrime?
In realtà, sappiamo bene come il Padre abbia scelto di esaudire la preghiera del Figlio: non gli ha evitato il supplizio della croce, ma gli ha permesso di diventare, proprio su quell’altare, il Salvatore del mondo. Dio non ha evitato a Cristo la sofferenza, ma ha sostenuto il suo cuore, rendendolo capace di consegnarsi alle esigenze dell’amore più grande, quello che non si ferma neppure davanti ai nemici.
L’espressione «pieno abbandono», con cui la lettera agli Ebrei descrive la condotta di Cristo, potrebbe essere tradotta anche come la capacità di accogliere con fiducia ciò che accade, di prendere bene anche ciò che inizialmente appare ostile o incomprensibile. Nella sua passione, infatti, Cristo non ha semplicemente subito gli eventi, ma li ha accolti con tale libertà da trasformarli in un cammino di salvezza. Un cammino che resta aperto a chiunque sia disposto a fidarsi fino in fondo del Padre, lasciandosi guidare dalla sua volontà anche nei passaggi più oscuri.
Vogliamo allora soffermarci su tre momenti della Passione in cui è lo stesso Signore Gesù, attraverso le sue parole, a mostrarci come si possa vivere una piena fiducia in Dio senza smettere di essere protagonisti della propria storia.
«Sono io»
Nel giardino del Getsemani, quando si presentano i soldati e le guardie insieme a Giuda, per arrestarlo,
Gesù, sapendo tutto quello che doveva accadergli,
si fece innanzi e disse loro: «Chi cercate?».
Gli risposero: «Gesù, il Nazareno».
Disse loro Gesù: «Sono io!».
Appena disse loro «Sono io»,
indietreggiarono e caddero a terra (Giovanni 18, 4-6).
Solo dopo un secondo interrogativo — che riceve la stessa risposta del primo — Gesù si consegna e si lascia condurre via. È il modo con cui l’evangelista ci fa capire che Gesù non è stato semplicemente arrestato, ma ha offerto la sua vita liberamente, come aveva già annunciato: «Nessuno me la toglie, ma la offro da me stesso» (Giovanni 10, 18). Nei momenti in cui la nostra vita subisce qualche battuta d’arresto — un imprevisto doloroso, una grave malattia, una crisi nelle relazioni — anche noi possiamo provare ad abbandonarci a Dio con la stessa fiducia, accogliendo ciò che ci turba e ci appare minaccioso. Come è possibile fare questo? Facendo un passo avanti. Presentandoci per primi all’incontro con la realtà. Questo atteggiamento non cambia, quasi mai, il corso degli eventi — infatti, Gesù viene arrestato subito dopo — ma se vissuto con fede in Dio e fiducia nella storia che Egli conduce, ci permette di restare interiormente liberi e saldi. Solo così il peso della vita si fa più leggero, e la sofferenza, pur restando reale, smette di essere inutile e inizia a generare vita.
«Ho sete»
Nel momento in cui si avvicina alla morte, ormai appeso al legno della croce, il Verbo di Dio dichiara tutta la sua sete:
Dopo questo, Gesù,
sapendo che ormai tutto era compiuto,
affinché si compisse la Scrittura,
disse: «Ho sete».
Vi era lì un vaso pieno di aceto;
posero perciò una spugna, imbevuta di aceto,
in cima a una canna e gliela accostarono alla bocca (Giovanni 19, 28-29).
Gesù muore non prima di aver manifestato — senza alcuna vergogna — tutto il suo bisogno. Si congeda dalla storia compiendo uno dei gesti più umani e insieme più difficili: chiedere ciò che da soli non siamo in grado di darci. Il corpo di Cristo, spogliato di tutto, manifesta il bisogno più umano: quello di essere amato, accolto, ascoltato. E proprio in quel momento, così essenziale e disarmato, la sete dell’uomo e l’amore di Dio finalmente si incontrano. Anche per noi, diventa possibile attraversare bene quegli istanti in cui emerge con chiarezza che non bastiamo a noi stessi. Quando il dolore, la stanchezza, la solitudine o la paura ci mettono a nudo, siamo tentati di chiuderci, di irrigidirci, di fingere autosufficienza. Ma è lì che si apre uno spazio per l’amore più vero: quello che non si impone, ma si lascia aiutare. Chiedere ciò di cui abbiamo bisogno, e permettere agli altri di offrircelo, è forse una delle forme più alte e più umili dell’amore. Per farlo, occorre abbandonare ogni orgoglio, ma anche ogni illusione di poterci salvare da soli. Accettare il bisogno non come una debolezza da nascondere, ma come una verità da abitare. E riconoscere che da soli non possiamo — e non vogliamo — vivere.
«È compiuto»
Dopo aver ricevuto quanto gli viene offerto,
Gesù disse: «È compiuto!».
E, chinato il capo,
consegnò lo spirito (Giovanni 19, 30).
Gesù confessa il compimento della sua — e della nostra — umanità nel momento in cui, spogliato di tutto, sceglie di donarci interamente la sua vita e il suo Spirito. Non è una resa passiva, ma un atto di suprema libertà, che accetta la debolezza come luogo in cui l’amore diventa pieno. Non sono l’autonomia o le grandi imprese a dare senso alla vita, ma la capacità di trasformare il limite in occasione di dono. In questo gesto, Gesù ci rivela che non è la forza a salvare il mondo, ma la debolezza di un amore che non trattiene nulla. Il tempo in cui viviamo, segnato dal mito della prestazione e sedotto dall’idolo dell’individualismo, fatica a riconoscere i momenti di sconfitta o di passività come luoghi possibili di compimento. Quando la croce ci toglie il fiato e ci immobilizza, tendiamo a sentirci sbagliati, inadeguati e fuori posto. Allora resistiamo, stringiamo i denti, nella speranza di uscire in fretta da una condizione avvertita solo come una prigione. Le ultime parole di Gesù crocifisso ci offrono un’altra interpretazione: ci mostrano quanta vita possa sgorgare da quei momenti in cui, non restando più nulla da fare, in realtà resta la cosa più bella da compiere: donare finalmente noi stessi.
Piena fiducia
Il Santo Padre ha voluto introdurci in questo Giubileo ricordandoci che Cristo è l’àncora della nostra speranza, a cui possiamo restare saldamente uniti, stringendo la fune della fede che ci lega a lui a partire dal nostro battesimo. Dobbiamo però riconoscere, con onestà, che non è affatto semplice mantenere «ferma la professione della fede» (Ebrei 4, 14), soprattutto quando arriva il momento della croce. Quando il male ci raggiunge, quando la sofferenza ci visita, quando ci sentiamo soli o abbandonati, ripetere le parole di Cristo ci sembra un gesto impossibile da compiere. Per questo, tra poco, sarà importante accogliere l’invito della lettera agli Ebrei: accostarci con piena fiducia alla croce, riconoscendo in essa il «trono della grazia per ricevere misericordia e trovare grazia, così da essere aiutati al momento opportuno» (Ebrei 4, 16). Lo faremo in modo estremamente sobrio ma profondo: qualcuno di noi si accosterà silenziosamente al legno per adorare il mistero che esso racchiude. In questo momento di adorazione, avremo la possibilità di rinnovare una fiducia piena nel modo in cui Dio ha scelto di salvare il mondo e potremo anche riconciliarci con il destino di passione, morte e risurrezione a cui la nostra vita va incontro. Questo non significa che la paura scomparirà, o che il cammino diventerà improvvisamente sicuro. Vuol dire solo che oggi, nel cuore di questo Giubileo, noi cristiani scegliamo la via della croce come unica direzione possibile della nostra vita. Sappiamo bene che le nostre forze non saranno sufficienti a compiere questo cammino, ma lo Spirito Santo, che ha già riempito i nostri cuori di dolce speranza, verrà in aiuto alla nostra debolezza per ricordarci la cosa più importante: così come siamo stati amati, così saremo capaci di amare, gli amici e persino i nemici. Allora saremo testimoni dell’unica verità che salva il mondo: Dio è nostro Padre. E noi siamo tutti sorelle e fratelli, in Cristo Gesù nostro Signore.
*Predicatore della Casa Pontificia
Il rito nella basilica Vaticana
di Alessandro Di Bussolo
Il primo celebrante sdraiato a terra, con l’assemblea raccolta in preghiera in ginocchio, all’inizio della liturgia; poi l’ostensione della Croce e la sua adorazione da parte di alcuni fedeli dopo l’omelia. Segni unici e caratteristici della Celebrazione della Passione del Signore, attraverso i quali per padre Roberto Pasolini, predicatore della Casa Pontificia, i cristiani hanno la possibilità di rinnovare «una fiducia piena nel modo in cui Dio ha scelto di salvare il mondo» e possono anche riconciliarsi «con il destino di passione, morte e risurrezione a cui la nostra vita va incontro».
Il sacerdote cappuccino per la prima volta ieri pomeriggio, 18 aprile, ha tenuto l’omelia della celebrazione del Venerdì santo nella basilica di San Pietro. L’ha presieduta il cardinale Claudio Gugerotti, prefetto del Dicastero per le Chiese Orientali, delegato di Papa Francesco. Presenti oltre settanta tra cardinali — tra i quali il segretario di Stato, Pietro Parolin, il decano e il vicedecano del Collegio, Giovanni Battista Re e Leonardo Sandri, — e vescovi, e 150 sacerdoti. Tra i 4.500 fedeli intervenuti al rito, in prima fila anche il vicepresidente degli Stati Uniti d’America, James David Vance, con la consorte Usha e i loro tre figli.
Dopo la lettura del racconto della Passione secondo Giovanni e l’omelia, nella preghiera universale tutti i partecipanti hanno chiesto al Signore di concedere vita e salute a Papa Francesco, e di conservarlo «alla sua santa Chiesa come guida e pastore del popolo santo di Dio». E per quanti si trovano nella prova, si è invocato il Padre, «perché purifichi il mondo dagli errori, allontani le malattie, vinca la fame, renda la libertà ai prigionieri, spezzi le catene, conceda sicurezza a chi viaggia, il ritorno ai lontani da casa, la salute agli ammalati e ai morenti la salvezza eterna».
Quindi, è iniziata la seconda parte del rito, con l’adorazione della Santa Croce. Il diacono l’ha portata processionalmente attraverso la navata centrale, facendo tre soste, durante le quali un cantore della Cappella Sistina ha intonato ogni volta: Ecce lignum Crucis, in quo salus mundi pependit. È seguita l’adorazione silenziosa del sacro vessillo da parte dei presenti, suggellata con un bacio. Poi, sull’altare è stato collocato il Santissimo Sacramento, portato dal diacono dalla Cappella della Reposizione. Il cardinale Gugerotti ha guidato infine la recita del Pater Noster e, dopo la comunione, l’orazione conclusiva sul popolo.