· Città del Vaticano ·

Una rilettura dell’omelia preparata dal Pontefice per la Domenica delle Palme

Dalla consapevolezza
della grazia la responsabilità della carità quotidiana

 Dalla consapevolezza della grazia  la responsabilità della carità quotidiana    QUO-088
17 aprile 2025

di Leonardo Sandri*

Il Santo Padre, nell’omelia preparata per la celebrazione della Domenica delle Palme, ci ha invitato a contemplare all’inizio della Settimana santa la croce e Simone di Cirene. Lo ha fatto secondo la prospettiva del Giubileo che Papa Francesco ha indetto e solennemente aperto nella notte di Natale: Peregrinantes in spe.

La speranza traspare infatti dall’affermazione che il Cireneo aiuta Gesù, «non per convinzione ma per costrizione». Si trova in una situazione che non avrebbe mai sognato né desiderato — aver a che fare con uno strumento di morte per maledetti, e ancora peggio dover stare accanto ad uno di quei «maledetti» che sarebbe stato appeso a quel legno — e infatti il Papa ci invita a pensare su cosa sarà passato nel suo cuore.

Consapevole o inconsapevole, Simone di Cirene fa e non dice, al contrario di un altro Simone, Pietro, che dice ma non fa, proclamando di voler seguire Gesù fino alla morte, ma poi rinnegando e allontanandosi da lui durante le ore della Passione.

Perché questo dovrebbe essere un segno di speranza? Perché ci dice che il disegno misterioso di Dio in Gesù Cristo è capace di comprendere dentro di sé, rendendolo strumento di salvezza, anche quello che apparentemente è indifferente o quantomeno inconsapevole. Il cristiano infatti sa, e questo è fonte di speranza, che il mistero di cui si parla non è oscuro o sorgente di timore, bensì un fuoco di amore così grande da non poter essere compreso, cioè abbracciato interamente dalla mente umana.

Pensiamo a quanto dice santa Caterina da Siena: «O amore ineffabile, o abisso di carità, pare che sii pazzo delle tue creature» o ancora a san Paolo nelle sue lettere: «O profondità della ricchezza, della sapienza e della conoscenza di Dio! Quanto insondabili sono i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie!» (Rm 11, 33), «siate in grado di comprendere con tutti i santi quale sia l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità, e di conoscere l’amore di Cristo che supera ogni conoscenza, perché siate ricolmi di tutta la pienezza di Dio» (Ef 3, 18-19).

Questa consapevolezza ci rende certi dell’opera della grazia ed insieme chiama la nostra responsabilità, accogliendo il dono della fede e cercando di vivere quotidianamente la carità, perché il portare la croce insieme a Gesù non sia un gesto di mera apparenza come il «portare la croce al collo, ma nel cuore» come l’omelia stessa conclude. Questo consente di essere testimoni di speranza, pellegrini e annunciatori sulle strade del mondo che Cristo ha redento tutto l’uomo e tutti gli uomini.

Ricordiamo il desiderio di gioventù del Papa di poter partire missionario in Giappone, come pure da Pontefice il suo instancabile percorrere le strade del mondo e dell’Italia: il suo stesso nome, Francesco, come egli più volte ha detto rimanda certamente al Poverello di Assisi, ma anche a san Francesco Saverio e al suo zelo apostolico e missionario. E la prima Esortazione Apostolica Evangelii gaudium parla della gioia del Vangelo, da condividere e far conoscere.

Lo sguardo del Papa abbraccia la Chiesa universale e il mondo, mentre spesso soprattutto in Occidente ci troviamo ad accostare le parole del Pontefice all’uno o all’altro schieramento di pensiero politico: certamente la parola della Croce contesta una appartenenza a Cristo solo formale, che ne difende i segni ma in realtà è distante nelle scelte di equità e giustizia sociale, o dall’altro chi si vanta di cercare i poveri ma dimentica che è povero anche il bambino nel grembo della madre o colui che sta morendo.

Il Papa però conosce bene anche la vicenda dei cristiani in Medio Oriente, dei drammi che hanno vissuto negli ultimi anni ma in fondo anche in passato, se pensiamo al dramma del popolo armeno più di un secolo fa; sa che molti cristiani copti — ortodossi e cattolici — sono soliti farsi tatuare una piccola croce sulla pelle come segno di appartenenza, come pure ricorda che dopo l’invasione della Piana di Ninive sulle case dei cristiani era posta dai miliziani del cosiddetto Stato islamico la nun, lettera dell’alfabeto arabo iniziale del nome «cristiani»: non è certo rivolto a loro l’invito a portare la croce non al collo ma nel cuore, perché è proprio da quel cuore sfidato per l’appartenenza a Cristo che sgorga il desiderio di una testimonianza visibile, anche nei segni esteriori, per fare capire agli altri fratelli in umanità che essere di Gesù non è essere contro l’uno o l’altro gruppo, quanto piuttosto tentare di vivere ogni giorno quanto il Papa ha ricordato nella sua omelia: «prepariamoci alla Pasqua diventando cirenei gli uni per gli altri» e ancora «davanti all’atroce ingiustizia del male, portare la croce di Cristo non è mai vano, anzi, è la maniera più concreta di condividere il suo amore salvifico».

Infine è suggestivo pensare che queste parole sgorgano da un cuore che in queste settimane è stato attraversato dal mistero della Passione e della Croce, financo al rischio di partire da questa vita qualche settimana fa, come ci è stato riferito nella Conferenza stampa prima della dimissione del Papa dal Policlinico Gemelli: siamo certi che in quei momenti, oltre ai cirenei che gli sono stati accanto e lo hanno aiutato a guarire, il Santo Padre grazie alla preghiera della Chiesa ha visto chinarsi su di lui come il Cireneo, questa volta non per costrizione ma per convinzione, lo stesso Signore Gesù, l’unico che compie quello che dice: solo in Lui è possibile la nostra fedeltà, solo in Lui possiamo passare — anche in questa Pasqua — dalla morte alla Resurrezione.

*Vice-decano del Collegio Cardinalizio