· Città del Vaticano ·

Il vescovo di Yei lancia l’appello affinché in Sud Sudan prevalga il dialogo

«Si impedisca
il bagno di sangue»

 «Si impedisca  il bagno di sangue»   QUO-083
11 aprile 2025

di Francesca Sabatinelli
e John Baptiste Munyambibi

Sedersi attorno ad un tavolo, parlare di pace e dialogo, è l’unica strada per impedire che il Sud Sudan venga di nuovo bagnato dal sangue del suo stesso popolo. L’appello lanciato attraverso i media vaticani è di monsignor Alex Lodiong Sakor Eyobo, vescovo di Yei, città a 150 chilometri a sud-ovest dalla capitale Giuba, nello stato dell’Equatoria Centrale, importante strada commerciale verso Uganda e Repubblica Democratica del Congo. Il vescovo esprime la preoccupazione della Conferenza episcopale del Sud Sudan e del Sudan che, da mesi, esorta il governo e i gruppi di opposizione a mettere in atto i punti principali del Tumaini Consensus, accordo firmato nel 2018 dal governo provvisorio e dall’alleanza del movimento di opposizione del Sud Sudan, che metteva fine ad una violenta guerra civile con oltre 400.000 morti, prevedendo inoltre elezioni entro il 2024, posticipate invece al dicembre 2026. Accanto a questo, i presuli sollecitavano anche la promulgazione di una nuova Costituzione. Ora, dopo la messa agli arresti domiciliari, lo scorso 27 marzo, del vicepresidente Riek Machar, di sua moglie, attuale ministro degli Interni, e di una ventina di altri oppositori politici, il rischio di un «ritorno catastrofico alla guerra», come ha indicato la Commissione Onu che vigilia sulle violazioni nel Paese, è drammaticamente vicino.

«Abbiamo rilasciato una dichiarazione che chiede pace e dialogo», spiega Lodiong Sakor Eyobo, con riferimento al messaggio del 28 marzo scorso, firmato dall’arcivescovo di Juba e presidente della Conferenza episcopale, cardinale Stephen Ameyu Martin Mulla , con il quale

i vescovi del Sudan e del Sud Sudan hanno parlato «con una voce unica, preoccupati e allarmati dall’escalation di violenza e dal deterioramento del clima politico nel Sud Sudan», chiedendo al popolo di «resistere ai discorsi d’odio, all’incitamento tribale e alla disinformazione, specialmente attraverso i social media». «Abbiamo ripetuto – spiega il vescovo di Yei - che vorremmo che il governo e le opposizioni abbassassero le tensioni per tornare a parlare, siamo stanchi di vedere versare il sangue, la logica del dialogo è l’unica via di uscita, lo abbiamo ripetuto e come Chiesa ci siamo detti pronti a mediare, sempre che ce ne lascino l’opportunità». Le richieste della Conferenza episcopale riguardano anche la presenza di militari di altri Paesi. «Abbiamo detto che vorremmo che l'esercito ugandese fosse ritirato dal Sud Sudan. Kampala è garante dell’accordo, se inviano i soldati a combattere a fianco di una delle parti significa che si stanno schierando. È non è corretto che il garante di un accordo divenga partigiano. Tutto ciò crea un’ulteriore tensione tra Paesi». La richiesta è quindi che vengano ritirate le truppe, che i politici si siedano e parlino con le loro rispettive forze per fermare la violenza e impegnarsi nel dialogo. «La mia impressione – prosegue Alex Lodiong Sakor Eyobo – è che il governo ci ignori, che non abbia assolutamente intenzione di ascoltare ciò che diciamo. Non ci affrontano, si tirano indietro».

Nelle scorse settimane, il Consiglio delle Chiese del Paese, organo ecumenico che raccoglie le principali comunità cristiane - Chiesa cattolica, Chiesa anglicana, i presbiteriani pentecostali - aveva consegnato a Salva Kiir una dichiarazione in cui si invitava alla calma, ricordando al presidente stesso che «in passato aveva garantito in più occasioni, impegnandosi a fondo, che non avrebbe mai più riportato il Paese in guerra e invitando il popolo e le Chiese a non avere paura». Durante quell’incontro, era il 26 marzo, Salva Kiir, come indicato in un comunicato della presidenza, aveva «riaffermato il suo incrollabile impegno a ristabilire la pace, insistendo sulla sua determinazione a garantire che il Paese sarebbe mai più andato in guerra». Poi tutto è precipitato, si è assistito ad una escalation della violenza, il vice presidente Machar è stato arrestato, spiega ancora il vescovo, e «sembra che stiano ignorando la voce della Chiesa» e persino quella del Papa, che «dal suo letto d’ospedale», affidava la sua preoccupazione ad un messaggio consegnato dal nunzio apostolico nel Paese monsignor Séamus Horgan, sia al Presidente Salva Kiir che al vicepresidente Riek Machar, nel quale si esortava i leader politici del Sud Sudan a dare priorità alla pace, alla riconciliazione e allo sviluppo. Ma, conclude Alex Lodiong Sakor Eyobo, «la tensione e gli attacchi non sono mai finiti».