Zona franca
La parola

di Luca Doninelli
Fin dal primo momento in cui l’ho letta, l’espressione “teologia rapida”, usata da padre Antonio Spadaro, mi è parsa tanto geniale quanto necessaria. Di fronte all’incalzare di eventi imprevedibili, capaci di prendere in contropiede qualunque schema (politico, sociologico, ideologico) ereditato dal passato, di fronte alla crisi delle interpretazioni, di fronte a una certa perdita di credibilità del mondo dell’informazione, il solito teatro dei discorsi e dei salotti e dei talk show e dei festival sembra avere le ore contate: gli specialisti delle cose del mondo sembrano perdere credibilità. Basti pensare all’imbarazzo umano oltre che ideologico di tanti intellettuali di fronte al barbaro conflitto israelo-palestinese e al conseguente sospetto che siamo giunti — noi che fino a poche settimane fa eravamo l’Occidente — alla fine del grande progetto democratico.
E la teologia, che più di ogni altra disciplina mette sul tavolo, al cospetto dell’imprevedibilità storica, i temi ultimi dell’esistenza, del destino, della salvezza e della libertà, rischierebbe, se ancorata a una forma troppo discorsiva, di essere continuamente scavalcata dagli eventi; una volta fissata una soglia tra l’umano e il non umano si vedrebbe immediatamente superata da una situazione contingente del cui precipizio (ma anche, credo, della cui gloria) non si vede la fine. Bisogna che il tutto della mia coscienza sia messo in grado di connettere l’istante presente, il qui-e-ora, con quel destino, con quella salvezza di cui la mia disciplina è portatrice. Questa è, se capisco bene, la “teologia rapida”.
Ricordo quando, diciannovenne, partecipai alle ultime lezioni di Gustavo Bontadini, uno dei maggiori filosofi del xx secolo nonché maestro, mai disconosciuto, di Emanuele Severino. Dismessi i panni del metafisico di professione, esauriti i cicli di lezioni sulla filosofia moderna, una volta in pensione Bontadini si dedicò a corsi dall’aspetto quasi giocoso. Ricordo la prima domanda che mi rivolse all’esame. «Mi dica, giovanotto: se tutti i caproni hanno la barba e io ho la barba, cosa ne consegue? Badi che sono un uomo permaloso». Uno dei corsi liberi dell’ultimo Bontadini si intitolava “Caccia grossa” o qualcosa di simile. Il grande vecchio entrava in aula con una copia di un quotidiano del giorno e si metteva a leggere a voce alta, soffermandosi e sobbalzando (era un vero talento rubato al teatro) ogni volta che s’imbatteva in un falso ragionamento, in un paralogismo, in un pensiero che fingeva di far evolvere il discorso (se era un editoriale) o il racconto (se si trattava di un articolo di cronaca) e invece si ripiegava su di sé per mancanza di energia razionale. Si rideva molto; al maestro non interessava che noi sapessimo ripetere i suoi argomenti, gli interessava trasmetterci una passione intellettuale. Di fronte alla sfida degli eventi, la nostra intelligenza non può restare neutrale, e allora è necessario darle delle armi (per lui: la metafisica) per non smarrire l’orientamento.
Se ho bene appreso la lezione del vecchio maestro, mi sembra di capire che una “teologia rapida” non è una teologia snella, limitata ai punti-chiave, una teologia prêt-à-porter, un manuale di primo intervento per un mondo malato. Una “teologia rapida” non tira via, affonda il bisturi con precisione là dove si annida la malattia, perciò richiede idee estremamente chiare, precise e circostanziate. Odia le semplificazioni e ama la complessità, la complessità del mondo e quella della stessa disciplina teologica. Insomma: è comunque “caccia grossa”. Il motto dantesco «perder tempo a chi più sa più spiace» ne è la definizione icastica. Il nostro padre Dante si muove per plaghe oscure sui passi di Virgilio (che non è un ombrello protettivo, un rifugio per anime belle, così come non lo è mai la cultura) e si vede costretto a mettere in gioco nell’istante, nel qui-e-ora, tutto il suo sapere, la sua fede, la sua teologia. Aristotele e Tommaso gli scorrono davanti a ogni incontro, a essi (e alla forza della poesia) si affida per segnare ogni volto, ogni incontro, ogni situazione con la parola giusta, quella parola che — anche mentre condanna — salva, sempre e comunque.
Questa parola giusta, tratta dal patrimonio del sapere e detta nell’istante fino a candire, come direbbe Montale, un frammento di realtà, è ciò che intendo con “teologia rapida”.
Voglio aggiungere, pasolinianamente, che la cultura che agisce sull’istante possiede un connotato di saggezza oggi molto raro. Richiede un aspetto di corrispondenza umana che va ben oltre l’applicazione di una teoria o di un discorso. Mi spiego. Chi abbia ascoltato una sola volta una certa sinfonia, riascoltandola a distanza di tempo farà fatica a individuarla subito; a chi, viceversa, abbia ascoltato (poniamo) cento volte quella sinfonia, sarà sufficiente la prima nota per individuarla. In altre parole, se ben comprendo, padre Spadaro non ci invita affatto a fare i teologi-giornalisti o i teologi-salottieri (anche se a qualcuno toccherà, c’est la vie), ci invita a mettere alla prova di un mondo fattosi d’un tratto caotico quello che crediamo di conoscere già: la nostra dottrina, la nostra cultura, la nostra visione del mondo, alla quale siamo affezionati e che talvolta ci ottiene buone rendite di posizione. E di affilare le armi della nostra teoria — che continuerà sempre a esserci necessaria — finché essa non sappia stare di fronte all’arroganza senza vergogna degli uomini più potenti della Terra per rintracciare, qui e ora, non soltanto una condanna o un motivo di indignazione ma il segno di una possibile salvezza. Noi siamo al mondo per salvarci, per rintracciare il senso delle cose, per orientarci nel labirinto, e dobbiamo farlo ora.
Aggiungo, per chiudere, che una “teologia rapida” non può essere neutrale (proprio come diceva Bontadini) e non può perciò mancare di una sponda eroica. Essa, se ben intesa, modifica la posizione dell’intellettuale, lo espone a venti ostili, mette in pericolo la sua posizione nel circo mediatico. E rifiuta l’idea del tempo come una continua, spesso insensata galoppata in avanti, ma celebra la sua profonda attualità gettando un ponte tra le mille domande che la vita ci getta addosso istante per istante e quello che i più fortunati tra noi hanno potuto imparare dai loro nonni.