«Gli arabo-israeliani

di Roberto Cetera
Lo sguardo, vivace, positivo e determinato, ma anche ricco di una speciale umanità, è di quelli che vorresti incontrare sempre in una Terra Santa dove oggi prevalgono invece occhi macchiati dal timore, dall’ansia e dalla paura. È lo sguardo di Mouna Maroun, 55 anni, da uno Rettore dell’Università di Haifa. Mouna, in questi giorni a Roma, è venuta a visitare la redazione dei media vaticani, e confessa: «Avrei tanto voluto incontrare Papa Francesco, ma sono certa che presto ne avrò di nuovo la possibilità, perché circondato dal nostro affetto e dalle nostre preghiere, tornerà in piena salute». La professoressa Maroun ha tre caratteristiche che la rendono unica nel panorama accademico israeliano: è donna, è araba, è cristiana.
Professoressa, quale di queste caratteristiche le ha creato più svantaggio?
Guardi, le dico con molta franchezza, in tutta la mia carriera non mi sono mai sentita discriminata, e per nessuno di questi tre caratteri. Nella società israeliana prevale una forte considerazione del merito. Proprio per queste mie, chiamiamole differenze, mi sono sempre impegnata moltissimo nel mio lavoro. E la mia nomina non è neanche un omaggio all’inclusività: io non mi sento di essere parte di una minoranza, sono una cittadina israeliana che sente di dover svolgere il proprio lavoro nella ricerca di un bene comune. Eravamo quattro candidati alla carica di rettore, tre uomini ebrei, ed io. Non penso di essere stata scelta per altro che non fosse il mio impegno costante di anni in favore del nostro ateneo.
Non in tutto Israele è però così.
Sicuramente Haifa è un contesto particolare, la componente araba è più ampia che in altre città, e in essa prevalgono i cristiani, che sono una parte ben istruita e molto integrata. Nella mia università per esempio circa il 45% degli studenti è di etnia araba. Chi rappresenta Israele come un monolite sbaglia, vi sono mondi completamente diversi: se a Gerusalemme prevale la presenza religiosa di entrambe le parti, e Tel Aviv vive una dimensione molto incline all’edonismo ateistico, Haifa è una città dove si lavora sodo e dove sono molto radicate l’interculturalità e l’interconfessionalità.
Cosa significa essere cristiani ad Haifa?
Significa essere riconosciuti come una parte viva della società. Vorrei esprimerle due mie radicate convinzioni. Io sono cresciuta in un ambiente nel quale ho imparato — e lo devo molto ai miei splendidi genitori — che la differenza non è tra l’essere ebrei, arabi, musulmani o cristiani, ma soltanto nell’essere umani. Pienamente umani. Siamo tutti figli di Dio, fatti nella sua immagine, cioè possessori di un germe di divinità che si compie soltanto nella pienezza della propria umanità. Vorrei sentire ancora più forte la voce delle Chiese in tal senso. E poi c’è una considerazione, diciamo più politica. Io credo che gli arabo-israeliani possano essere decisivi per un futuro di pace in questa terra che soffre. L’esempio di convivenza nella pace che offriamo deve contaminare anche gli arabi che vivono oltre il confine di Israele. La loro sofferenza deve trovare finalmente soddisfazione, non solo attraverso la soluzione dei due Stati, ma soprattutto nell’instaurarsi di un clima di rispetto e di riconoscimento della dignità di entrambe le parti. Comprenderà che da questo punto di vista il ruolo dell’educazione è fondamentale. Ed è questo che ispira essenzialmente il mio lavoro.
Lei è una donna di fede.
Sono cristiana di confessione maronita. Sono orgogliosa di mostrarmi in pubblico ogni giorno con il crocifisso che mi vede ora al collo. E sono molto devota di san Charbel, il monaco libanese proclamato santo proprio dal papa san Paolo vi, dopo la sua storica visita in Terra Santa. Mi rivolgo a lui ad ogni passaggio critico della mia vita, perché san Charbel, che pure era un mistico, diceva che l’uomo si santifica con la preghiera ma anche con il lavoro. Se svolto con dedizione, umiltà e per il bene comune. È quello che provo a fare ogni giorno. Spero di riuscirci.