· Città del Vaticano ·

Zona franca
Sulla “teologia rapida”

Il coraggio di entrare
nella burrasca del tempo

 Il coraggio di entrare nella burrasca del tempo  QUO-077
04 aprile 2025

di Isabella Guanzini

È indubitabile che, nel pensiero e nella scrittura, ci sia un segreto del ritmo capace di catturare il tempo e di incatenare l’interesse dell’ascolto e della lettura. È la capacità di legare una storia all’altra, sapendo interrompersi al momento opportuno: è la strategia delle serie televisive più fortunate che grazie al loro ritmo magico fanno restare incollati allo schermo, generando il desiderio di sapere come la storia andrà avanti. È forse un lato di quella rapidità di cui parlava Antonio Spadaro riferendosi a una teologia che dovrebbe coinvolgere e travolgere, “rapire” l’attenzione e trascinare con sé pensiero e azione. Ci vuole tuttavia molto mestiere e una notevole dote drammaturgica — o la genialità dell’Ortodossia di Gilbert Chesterton — per rendere avvincente la dogmatica ecclesiale, senza esporsi a una definitiva semplificazione e irrilevanza culturale.

Eppure, intravedo nella proposta di una “teologia rapida” una buona dose di provocazione che può permettere alcune considerazioni sul suo significato per la condizione presente. In effetti, non c’è esperienza più religiosa del senso del tempo. Nelle sue meravigliose Lezioni americane, in cui Italo Calvino si è proposto di raccomandare al millennio che stiamo vivendo alcuni valori, una di esse è dedicata precisamente alla rapidità. Calvino non intende certamente fare un elogio della velocità delle macchine e dei media a estesissimo raggio (scrive nel 1984) che «rischiano di appiattire ogni comunicazione in una crosta uniforme e omogenea» e mira alle competizioni e ai confronti. Non si tratta infatti di adattarsi a quella logica dell’accelerazione che domina attualmente la produzione, la comunicazione, il consumo e persino l’educazione che, secondo il sociologo Hartmut Rosa, ha plasmato radicalmente il nostro regime temporale degli ultimi decenni, destinandoci a una sempre più profonda alienazione (Accelerazione e alienazione, Einaudi, 2015). Al contrario, Calvino pensa al valore della rapidità dello stile e del pensiero nel senso di quella velocità mentale che coglie il ritmo del tempo e si esprime con “agilità, mobilità, disinvoltura”, senza per questo negare i piaceri dell’indugio, della digressione e del controtempo. L’antica massima festina lente ne esprime la natura ossimorica, così come l’immagine della tartaruga con la vela scelta da Cosimo de’ Medici per la sua flotta, o quella di un delfino che guizza intorno all’àncora nell’emblema dell’umanista veneziano Aldo Manuzio.

La rapidità può rappresentare il controcanto teologico necessario nell’epoca dell’accelerazione, come alternativo a un mero adattamento: diviene il tratto di una teologia che ha il coraggio di entrare nella burrasca del tempo, senza essere semplicemente sbalzata via dalle onde.

Anche il teologo presbiteriano John Hick usava metafore marine per distinguere fra una prospettiva teologico-dogmatica, che fornisce la zavorra alla nave, e una visione teologica dinamica, orientata ai problemi, che provvede alle vele; l’una tiene salda la tradizione e il sapere, in modo che non affondino, l’altra li fa volare alto nel vento della storia, con lo sguardo puntato al futuro. Da un lato c’è il depositum fidei, l’elemento di stabilità e di radicamento. Dall’altro c’è l’agilità, la mobilità e la disinvoltura che si immergono nei veloci processi di trasformazione del presente, e osano in mare aperto. Ecco la proposta di una teologia mercuriale e insieme vulcanica, capace di attesa, ma anche di affondo, e persino di salto nel buio. È l’invito a una speciale concentrazione e concretezza teologica che improvvisamente e agilmente — con un gesto in certo modo anarchico — decide di mirare all’essenziale, senza per questo sorvolare i due millenni della sua storia.

Anche Evangelii gaudium invoca il superamento di una trasmissione ossessiva e «disarticolata di una moltitudine di dottrine» per concentrarsi «sull’essenziale, su ciò che è più bello, più grande, più attraente e allo stesso tempo più necessario. La proposta si semplifica, senza perdere per questo profondità e verità, e così diventa più convincente e radiosa» (35). Anche questo significa rapidità.

Eppure, vedo anche qualcosa di anacronistico in questa proposta. Una linea sottile demarca il confine fra la rapidità e la velocità, fra la capacità di attenzione e fiducia nel caos (questa è la fede) e l’ansia frenetica di restare al passo dei tempi. Cosa significa esseri contemporanei nel tempo della diaspora, della minoranza cognitiva e della exculturazione del cristianesimo (Theobald), ossia nell’epoca della fine dell’egemonia? Qual è l’alternativa alla coltivazione di comunità parallele, alla difesa di oasi pacifiche incuranti della burrasca, ma povere di fecondità culturale (e forse di velocità mentale)? Nel suo breve testo Che cos’è contemporaneo?, il filosofo Giorgio Agamben risponde: «Il contemporaneo è l’intempestivo». La contemporaneità rappresenta, secondo lui, una «singolare relazione col proprio tempo», caratterizzata da uno scarto, una discronia e un adattamento imperfetto: «Appartiene veramente al suo tempo, è veramente contemporaneo colui che non coincide perfettamente con esso né si adegua alle sue pretese ed è perciò, in questo senso, inattuale». Esseri contemporanei significa allora appartenere profondamente al proprio tempo attraverso uno sfasamento e un anacronismo. Coloro che corrispondono completamente con la loro epoca, che combaciano con essa in ogni punto, non sono infatti contemporanei, perché proprio per questo non possono davvero osservarla. Comprendere il proprio tempo significa anche sapere neutralizzare le sue luci eccessive, scoprire le sue ombre, e insieme riconoscere in esso gli indici e le segnature dell’arcaico, ossia del suo passato.

In tale prospettiva, l’anacronismo della conoscenza teologica, oggi sempre più criticato, potrebbe rivelarsi un’opportunità piuttosto che un difetto. Il problema principale è tuttavia il “come” di questa sfasatura e di questo scollamento, che non deve certo rovesciarsi in mero conservatorismo, paternalismo e fuga nel passato. C’è bisogno dell’anacronismo creativo e a tratti anarchico di una teologia capace di entrare nei flussi della cultura e di pensare rapidamente in essa — in corsa, come scrive Spadaro — priva di garanzie e porti sicuri. Una teologia che però non si lascia semplicemente trascinare nelle sue ombre ma le trascina per così dire a sé, le rapisce, pensandole e amandone il caos. Festina lente.