
di Flavia Chiavaroli e Sergio Massironi, con Angelica, Fanta, Giulia, Patrizia, Stefania, Susanna
Persino dietro le barre può arrivare, pressante, l’affermazione più illogica che pervade un mondo ossessivamente competitivo. Ha persino il tono di voce di una madre che insisteva: «C’è solo un treno e passa una volta sola». Fra le detenute della Giudecca c’è la consapevolezza, più realista, che i treni sono molti e in genere passano ogni giorno. «Me li sono fatti sfuggire tutti», confida una di loro pensando agli anni passati, «ma poi ho imparato a riflettere».
Il carcere si presenta come una sosta forzata, «è come una stazione da cui partono e arrivano persone da ogni dove, ognuna col suo treno, ognuna con la sua storia», ma le donne che incontriamo a Venezia hanno realizzato che talvolta «chi prende tempo non lo perde».
L’immagine delle rotaie sembra descrivere una retta via, su cui procedere senza pensare, ma la vita non funziona così. Se fossimo dotati di una bussola che ci indica la nostra strada, forse non ci sentiremmo mai smarriti, mai soli. Chissà. Scelte sbagliate, però, possono portare a fare la scelta giusta. Interrompendo la corsa, ad esempio. Come faremmo a sentire giusta una direzione, se non fosse frutto di una nostra libera scelta? Certo, quella voce insistente insinua «che, quando si sbaglia, si sbaglia e stop, ma è questo stop che obbliga a pensare. È un cambiamento che fai, sempre se lo vuoi fare. Fa paura, perché non è un lavoro facile quello su di sé. Può richiedere anni, ma quando si inizia va avanti».
Icastica, una delle presenti dichiara: «Non sono finita». È il contrario della paura: la riceviamo come una confessione di fede, che spazza via le nubi del passato e del futuro. Leggiamo il passaggio di un filosofo, che approfondisce questa comune, potente consapevolezza: «Se la verità non si risolve nell’esattezza, allora è possibile ritornare sui propri passi, allora è possibile che anche alcune scelte sbagliate aiutino, con il tempo, a individuare la direzione giusta. Non ci sono dubbi».
Molte domande aleggiano tra donne che sanno, molto meglio di altri, cosa voglia dire riflettere sulla sua perdita o sulla direzione sbagliata di un treno. Quando si ha il tempo di pensare, di riflettere sulle proprie paure e affrontarle nel profondo, si scoprono le tracce di tante vie possibili, echi di infiniti treni che hanno incrociato o sfiorato il nostro percorso. Questo tempo non ha nulla di statico: è promotore, invece, di cambiamento. Qualcuno sostiene che l’importante sia non stare fermi, che convenga salire anche su un convoglio sbagliato: consentirà degli incontri, offrirà dei panorami, farà scoprire città sconosciute e si potrà comunque scendere, senza continuare il viaggio, persino cambiare direzione e tornare indietro.
Una voce interviene, dissentendo: «Puoi anche stare in stazione: è un bel posto. C’è gente che va, gente che viene, passeggeri che si ripresentano puntuali ogni giorno e qualcuno che vedi una volta e mai più. Se sali sul treno, di questa umanità non vedi niente: è dalla stazione che impari a guardare. Vedi gli abbracci di chi si saluta e di chi si ritrova, osservi chi è solo, chi è pensieroso, chi ha fretta, chi sembra di non avere voglia di quello che fa. Se non stai fermo, non sai neanche viaggiare».
La metafora della stazione, per un luogo di reclusione, non potrebbe essere più calzante. Il carcere è spesso considerato un non luogo, un momento di passaggio, di transizione, ma è anzitutto un luogo di lavoro, di fatica, sebbene gli sia connaturale il concetto di attesa. Le donne detenute hanno ben chiaro che ci sono molti modi per vivere quest’attesa: si può subire, si può lottare contro di essa e contro il sistema, combattere le compagnie con cui forzatamente ci si ritrova a condividere lo spazio vitale; si può pensare di essere arrivate al capolinea, lasciarsi andare alla rabbia e alla disperazione, pensare che non ci sia via di uscita.
«Riempire il vuoto non è possibile — dice un’altra di loro —, ma costruire qualcosa di nuovo sì». E se in quell’attesa non vi fosse affatto soltanto il vuoto, bensì un vero punto di partenza? Spesso, nel mondo fuori, veniamo travolti dall’avvicendarsi incessante di cose da fare, di luoghi in cui essere e non ci rendiamo conto che viviamo la vita di altri, o almeno non più la nostra. «Sai che cosa? Tutti vorremmo fare tutto. In una sola vita, però, non puoi vivere tutto. Guarda allora gli altri e non essere invidioso, ma guarda: devi guardare! Partecipa alla loro energia. Noi possiamo vivere tutto solo così, vivendo anche le gioie e le esperienze degli altri, lasciandole a loro, ma sentendole come nostre. Allora tutto cambia sia per te sia per l’altra: tu non stai male e lei non deve sentirsi in colpa per le sue gioie».
Interviene un’altra voce: «Fuori di qui, nel mondo in corsa, altri ti danno il tempo: non sei tu, ma la parte che gli altri ti danno». Ognuno si sposta al ritmo altrui: un eterno “mostrare” che annulla le nostre individualità e ci tiene in moto perpetuo, sfinendoci, senza darci modo di percepire la stanchezza e di trovare un luogo per fermarci. Sembra quasi fare paura il “fuori”: tanto desiderato, dentro il carcere, ma ugualmente spaventoso. «Io vedo il carcere come la stazione dei treni: ognuno ha il suo viaggio e il suo orario di partenza. È normale che qualcuno parta prima. Altri rimangono, in attesa del proprio».
Ritorna un tema delicato e umanissimo: «Non invidiare chi esce, dalle forza ed energia, partecipa alla sua gioia: sentirai più leggero anche il tuo peso. Tutto è importante nella vita, ma dipende dal momento». Anche noi, entrati a raccogliere queste testimonianze e che stasera usciremo dal carcere, ci sentiamo interpretati: se un giorno, per costrizione o per volontà, decidessimo di fermarci in stazione, invece di correre a prendere l’ennesimo treno, di sederci e di osservare l’incessante ronzio che ci circonda, noteremmo che piano piano il rumore di fondo si affievolisce e inizieremmo a percepire le persone oltre il loro fare, oltre il loro rappresentarsi. Quando smettiamo di specchiarci negli altri e diamo voce ai pensieri, al sentire, diveniamo capaci di osservarci senza invidia, senza risentimento, di non sentirci invasi nel nostro spazio vitale. Quando ci si concede il tempo dell’attesa, dell’osservazione, o ci si apre al dubbio con l’umiltà che non ha risposte, allora si inizia a imparare. «Se il treno da prendere è un regionale, che offre tante fermate per arrivare a destinazione, magari il viaggio ti permetterà di conoscere qualcuno che ti fa cambiare punto di vista. Allora scoprirai qualcosa che non sapevi e resterà un segno indelebile — positivo o negativo che sia — nel tuo cuore».
Voci amiche, quelle della Giudecca, che ci narrano una vita liberata dall’alta velocità. «Sono scesa all’ora d’aria. E mi sono messa a parlare con un gabbiano. “Tu non sai nemmeno di essere in galera”, gli ho detto. E allora mi sono sentita più libera anch’io».