· Città del Vaticano ·

Là dove la Speranza può sembrare perduta Nella baraccopoli di San Ferdinando in Calabria

La mia speranza si chiama: Papà Africa

 La mia speranza  si chiama: Papà Africa  ODS-030
05 aprile 2025

di Piero Di Domenicantonio

«Vogliono far credere che sia una polveriera, pronta ad esplodere da un momento all’altro. Pensano, in questo modo, di smuovere le istituzioni. Ma non è così. Non si fa così. Adesso vedrai... conoscerai il dolore di questi ragazzi, ma ti renderai anche conto che quello che vogliono è solo un po’ di dignità, la dignità di non essere più invisibili».

Bartolo Mercuri, che da quasi venticinque anni con la sua comunità “Il Cenacolo” porta aiuto ai braccianti africani e ai poveri della piana di Gioia Tauro, mi istruisce mentre mi accompagna col suo furgone bianco nella baraccopoli di San Ferdinando a Rosarno. Prima di arrivare ci fermiamo in un negozio e carichiamo tra i sedili una bombola di gas. «La dobbiamo portare a Bamba» spiega riprendendo la guida attraverso strade di campagna che costeggiano agrumeti ancora carichi di frutta, prati incolti e vecchi capannoni.

Bamba, insieme ad altri due ragazzi, ci sta aspettando dove finisce l’asfalto e si apre un varco nella recinzione che delimita l’accampamento. L’odore di marcio di una montagna di rifiuti, che da settimane nessuno passa a smaltire mi riempie le narici. Al di là della barriera metallica vedo una distesa di casupole, tirate su con pali di legno, qualche lamiera e teli di vecchie tende. Bartolo mi spiega che in questo periodo ci vivono quasi seicento persone, ma, nel pieno della stagione degli agrumi, si arriva a contarne più del doppio, ammassate anche in dieci in una stessa baracca. In maggioranza sono giovani. Tutti sono arrivati dall’Africa, inseguendo il sogno di un lavoro dignitoso.

«Adesso vedrai con i tuoi occhi», mi dice mentre scende dal furgone e va incontro a Bamba: «Che ci fai qui? Mi avevi chiesto qualcosa?». Bamba non ci casca: conosce troppo bene Bartolo e sa che è uno che non perde l’occasione per fare uno scherzo. Apre la portiera del furgone e scoppia in una risata: «Ti sei ricordato! Grazie, Papà Africa».

Per loro non è solo un amico che dà una mano, è uno di famiglia. Tutti hanno il suo numero di telefono e sanno che possono chiamare se hanno bisogno. Succede ogni giorno e a tutte le ore. Anche in piena notte, quando la baraccopoli si sveglia perché nei campi si comincia a lavorare alle cinque del mattino. È accaduto pure qualche giorno fa: un ragazzo di 23 anni non si è svegliato, è morto nella sua baracca stroncato da un infarto o, forse, dal freddo. Il telefono di Bartolo ha squillato e poco dopo Papà Africa era là a condividere il dolore e a fare tutto il possibile per dare al giovane un funerale dignitoso.

Bartolo mi mostra la tenda dove il ragazzo è stato trovato morto. Lì conosco Gassam e Buba, due degli imam della baraccopoli. Stringono tra le mani la misbahah perché da poco hanno finito di guidare la preghiera. «C’è qualche cristiano, ma siamo soprattutto musulmani», mi dicono indicandomi la loro moschea: una tenda tra le tende.

Io provo a parlare del Giubileo, a spiegare che questo, per noi cattolici, è un anno santo, un anno speciale per riconciliarci con Dio e con i fratelli. Non è facile capirci, ma quando pronuncio il nome di Papa Francesco tutto si chiarisce. «È un uomo buono — dicono —. Quando è stato male, abbiamo pregato tanto per lui, per la sua salute». Gli vogliono bene e sanno di non essere invisibili ai suoi occhi. Infatti, proprio grazie a Papa Francesco da qualche mese la baraccopoli è stata dotata di un servizio per le docce e per la lavanderia. Il cardinale Konrad Krajewski, che già tante volte è venuto ad incontrare Bartolo e la sua comunità portando viveri e ogni genere di prima necessità, lo ha inaugurato il 27 novembre scorso, affidandolo alla Caritas diocesana di Oppido Mamertina-Palmi. Un gesto significativo perché il servizio della carità verso gli ultimi non è compito di uno, ma responsabilità di tutti, soprattutto di tutta la comunità ecclesiale.

Oggi, insieme con la bombola del gas, Bartolo ha un carico di vestiti. Il furgone è pieno zeppo e quando si apre il portellone qualche pacco schizza a terra. Nessun arrembaggio, tutto si svolge ordinatamente. Le buste e i pacchi con gli indumenti vengono messi a terra, uno accanto all’altro. Ce n’è per tutti: c’è anche un bel grembiule rosso che di mano in mano arriva sul petto di un uomo che sta arrostendo dei quarti di pollo. Li vende a 3 euro al pezzo con contorno di cipolle e qualche spezia. «Qui non si è mai arreso nessuno alla disperazione», mi spiegherà poi Ibrahima, il giovane coordinatore del team di Medu (Medici per i Diritti Umani) che due volte a settimana offre assistenza sanitaria agli abitanti della baraccopoli. «Lo sfruttamento c’è. Nonostante molti abbiano il permesso di soggiorno e un contratto di lavoro, i loro diritti non sono rispettati. Orari elastici, nessun giorno di ferie e una parte del salario in busta paga e l’altra in nero. Ma nonostante tutto vanno avanti. Ci sono persone che si sono organizzate: hanno messo su una bottega da barbiere e pure un’officina per riparare le biciclette. C’è anche chi cucina, chi vende alimentari e pure l’acqua calda, riempiendo grandi bidoni di metallo poggiati su bracieri fatti di sassi».

Siamo in giro dalle sei del mattino: prima un salto a prendere scatole di ortaggi offerti da un paio di supermercati, poi la Messa nella chiesa di Polistena e, finalmente, a San Ferdinando. Ma a Bartolo 24 ore non bastano. Bisogna raggiungere tante altre persone che vivono isolate, in mezzo alla campagna, dentro capannoni o casolari abbandonati.

Mentre riprendiamo il viaggio chiedo: «Bartolo, ma chi te lo fa fare?». «L’amore per Gesù — risponde —. Io non faccio niente, faccio solo quello che Dio mi dice di fare». La sua fede è disarmante, come lo è quella di chi è passato attraverso il setaccio della prova. «Una volta ero un diavolo — dice —. Rimproveravo mia moglie quando andava a messa. Bestemmiavo...». E poi? «Poi sono stato in carcere per un reato che non avevo commesso e lì ho conosciuto Gesù. Da quel momento non l’ho lasciato più e lui non mi ha mai lasciato solo». «Vedi dove sei seduto? Quello è il posto di Gesù che ogni giorno mi accompagna mentre vado in giro a dare una mano a questi poveri figli che nessuno vuole».

Mi stringo contro il finestrino, cercando di recuperare sul sedile un po’ di spazio tra me e Bartolo. Davvero nessuno, da solo, riuscirebbe a fare quello che quest’uomo fa ogni giorno, senza mai stancarsi, senza mai lamentarsi.

«L’amuri veni di l’amuri», l’amore viene dall’amore. È la logica di Bartolo. Una logica che ha contagiato un bel gruppo di laici, soprattutto donne, alcune giovanissime, che ogni venerdì pomeriggio salgono nella sede del “Cenacolo” a Maropati — sui primi tornanti dell’Aspromonte — per distribuire pacchi alimentari ai poveri della zona. Centinaia di famiglie. Molte sono italiane. Tante altre sono arrivate dall’est Europa.

I magazzini del “Cenacolo” sono sempre pieni di ogni ben di Dio. Qui la provvidenza non si è mai fatta aspettare, arrivando sotto forma di forniture di cibo in scatola, pasta, saponi, dolci per i bambini... Bartolo preferisce così, piuttosto che ricevere soldi: «Quelli sono del diavolo», dice. Ha iniziato comprando il necessario con la decima dei ricavi del suo negozio di mobili. Ma poi, da quando è finito in televisione grazie alle trasmissioni di Domenico Iannacone, le donazioni si sono moltiplicate e si è dovuto rassegnare ad aprire un conto corrente che, però, ha messo nelle mani di un comitato di garanti, del quale fa parte anche Michele Albanese (è l’autore dell’articolo in apertura), giornalista da anni sotto scorta per il suo impegno professionale e civile.

Anche il furgone dove viaggiamo è frutto della generosità di una coppia di Taranto per Papà Africa. Adesso ci sta portando a mantenere un’altra promessa: una bicicletta per Risa. Appena la vede, il ragazzo sgrana gli occhi e abbraccia Bartolo, sollevandolo da terra. È felice perché, da queste parti, la bicicletta è tutto: ti permette di muoverti e di andare a cercare lavoro. Risa per ringraziarci ci invita ad assaggiare delle arance — dice che sono dolcissime — e ci fa vedere dove vive. Non c’è acqua corrente e neppure energia elettrica. Il raggio di sole che entra dalla porta di metallo ci mostra uno stanzone dove sono ammassate almeno quindici brande, separate da tende fatte di coperte.

Salutiamo Risa e ripartiamo con in bocca la dolcezza delle sue arance e l’amaro di tutto il resto. In silenzio penso al Giubileo della Speranza e a quale speranza possano aggrapparsi questi ragazzi. Ma la prossima tappa è vicina. Ci aspetta Alì, un uomo che vive da solo in un grande ex magazzino per lo stoccaggio degli agrumi sequestrato alla ‘ndranghera. È partito dal Senegal per studiare lettere ed è arrivato a Parigi. «Ma non avevo i soldi per continuare — racconta — e allora sono venuto qui, perché sapevo che qui si può lavorare. Ogni tanto mi passano a chiamare oppure vado io a cercare lavoro. Il resto del tempo lo passo leggendo i giornali che mi danno degli amici. Ho un vocabolario, così se non capisco una parola la cerco».

«Alì, cos’è per te la speranza?». Mi guarda, poi si rivolge verso Bartolo: «Se c’è da dare un nome alla speranza, per me si chiama Papà Africa!».