
di Michele Albanese
Oltre sei anni fa, il 6 marzo 2019, cominciava lo sgombero e poi l’abbattimento dell’enorme e indegna baraccopoli nata nella zona industriale di San Ferdinando. Qui il Ministero dell’Interno aveva realizzato una tendopoli per ospitare almeno una parte degli immigrati arrivati dall’Africa centrale.
Quella era la seconda tendopoli realizzata dopo la cosiddetta “rivolta di Rosarno” nei primi giorni di gennaio del 2010, quando i lavoratori africani avevano dato vita a una protesta dura contro le violenze e lo sfruttamento della ’ndrangheta e di imprenditori collusi. Vivevano, anzi, sopravvivevano, ammassati in impianti industriali abbandonati come l’ex Opera Sila e la Rognetta. Gli “schiavi delle braccia” vennero ribattezzati, impiegati nella raccolta delle arance e dei mandarini per pochi euro, curvati a raccogliere dall’alba al tramonto.
La scelta di dare vita prima ad un campo container, fuori del centro abitato di Rosarno, e, poi, di una tendopoli a San Ferdinando, nell’area di sviluppo industriale nel retro-porto di Gioia Tauro, nasceva dall’esigenza di allontanare i braccianti africani per evitare altre rivolte, o scontri tra questi ultimi e gli abitanti locali. Il campo container durò quasi 15 anni, poi venne smantellato nel 2004 e i circa cento ospiti trasferiti nel “villaggio della solidarietà”, costruito da quasi 15 anni e mai utilizzato.
La tendopoli di San Ferdinando, non gestita, abbandonata a se stessa, si è trasformata in un’indegna baraccopoli, un enorme ghetto. Fino a 5 anni fa, quando parte degli immigrati erano stati trasferiti in una nuova tendopoli, a 200 metri di distanza, appariva pulita, ordinata, con acqua, corrente elettrica, area cucina, moschea, controlli all’ingresso persino con “badge” personali. Dopo cinque anni, tutto è stato stravolto. E la tendopoli che doveva sostituire la baraccopoli è diventata una nuova baraccopoli. Una storia che si ripete da almeno tre lustri.
Cumuli di rifiuti fanno bella vista all’ingresso, proprio vicino ai due container dove Papa Francesco ha voluto che si realizzasse la “lavanderia del Papa”. All’interno, le tende si sono tutte logorate ed intorno ad esse sono sorte nuove baracche realizzate con materiale di fortuna: legno, plastica. Un ghetto senza servizi dove nei mesi invernali vivono anche fino a mille persone, dove un secchio d’acqua calda costa fino a tre euro, nel piccolo bazar che è nato.
I migranti arrivano qui, ogni anno, e poi vanno via verso altre regioni, all’inizio delle primavera. Ma tornano. Molti sono clandestini, altri, nonostante il regolare permesso di soggiorno, non trovano case per abitare dignitosamente. Nel tardo pomeriggio l’aria si riempie di un odore acre e intenso, perché tra le baracche iniziano già ad accendersi i primi fuochi, unica fonte di calore in una giornata fredda e umida di pioggia.
La tendopoli di San Ferdinando sorge nel nulla di un’area industriale, alle spalle di una fabbrica chiusa e con la Salerno-Reggio Calabria che sfreccia al di sopra.
Lontana dagli occhi, la tendopoli è una corte dei miracoli dove la sopravvivenza raggiunge le più alte forme di resistenza umana. La luce filtra ancora dalle nubi grigie, ma «tra qualche ora qui sarà tutto buio» — raccontano gli operatori di Emergency, una delle ong attive da diversi anni sul territorio.
Un’imponente catasta di rifiuti segna il punto di ingresso della tendopoli: in questo spazio le persone vengono a gettare abusivamente la spazzatura. Lungo il perimetro, sorgono diversi container di servizio: oltre alla lavanderia donata dal Papa, di sono gli uffici di consulenza legale. Al centro del piazzale antistante la tendopoli è parcheggiato il Polibus di Emergency, un grande pullman rosso attrezzato con due ambulatori, una sala d’attesa e una stanza per le mediazioni.
L’età media all’interno della tendopoli è di circa 30 anni, la maggior parte dei lavoratori sono regolarmente soggiornanti. Se fino a qualche anno fa erano per la maggior parte lavoratori in nero, oggi si parla soprattutto di lavoro grigio, regolare dunque, ma solo dal punto di vista formale. Le provenienze sono molto varie, ma la maggior parte dei lavoratori proviene dall’Africa subsahariana: «Sono arrivati nel corso degli anni anche maghrebini — spiega Ousmane —, ma la convivenza tra loro è difficile».
In qualche modo la tendopoli di San Ferdinando è diventata una cittadella che difende i propri confini e che vive seguendo un proprio tempo, un proprio corso delle cose. È il segno che nel territorio di Rosarno-San Ferdinando non è mai stata costruita alcuna integrazione: la città e la tendopoli, i calabresi e i braccianti, vivono ad una manciata di chilometri di distanza che rappresentano due dimensioni spazio-temporali diverse. Il divario si allarga e diventa irrecuperabile, tutti si sentono vulnerabili, l’intolleranza dilaga.
Tra i pochi che si danno da fare per portare aiuti e coperte, cibo e vivande c’è Bartolo Mercuri, che tutti qui chiamano “Papà Africa”. Tre le centinaia di braccianti di colore ci sono anche molti stanziali, chi da qui non si muove mai, altri che si sono lasciati andare sotto il peso dell’alcol e, forse, anche della droga per disperazione. I malati di mente sono in aumento tra gli immigrati e sono emarginati dai loro stessi compagni. Nella tendopoli li hanno messi tutti in una zona, la più degradata. E a loro non pensa nessuno, tranne Bartolo, che si ferma davanti a un ragazzo: «Vuoi un pollo? Vuoi qualcosa da mangiare?». Il ragazzo dice di “no” con la testa, ma sembra pensare ad altro. Poi si allontana e va a frugare dentro a un cassonetto dei rifiuti. Una scena inaccettabile.
I braccianti immigrati riconoscono subito Bartolo. «Ciao Papà Africa». E parte il “tam tam”. A decine accorrono, circondando il furgone. Ma per distribuire si aspetta uno degli imam, Gassam, senegalese, in Italia da 10 anni. È l’autorità riconosciuta da tutti, in realtà l’unica presente. Perché qui ormai tutto è in abbandono. Quel pezzo di terra è il luogo degli invisibili, in una terra di poveri in via di spopolamento da dove si scappa quando e come si può.