
di Giuditta Bonsangue
In una classe vuota di un liceo statale, c’è poco da osservare: una cattedra, dei banchi, due lavagne, una classica e l’altra interattiva. Sembra che non ci sia niente da aggiungere, ma segni del passaggio di generazioni di studenti ci sono: le scritte sbiadite sui muri, su qualche sedia o sul legno che riveste la struttura della cattedra. Tra le “incisioni” questa ricorre spesso: «Lasciate ogni speranza o voi ch’entrate». È proprio così? Lo chiediamo ai volontari del Pog (“Progetto orientamento giovani”) che entrano in classi piene di studenti tre giorni consecutivi per camminare con i giovani, stringendo mani cariche di paure e di sogni, e per annunciare che c’è un posto nel mondo, che aspetta ciascuno, così com’è.
Pog è l’acronimo con il quale i volontari sintetizzano la loro proposta educativa che si inserisce in modo fortemente alternativo nel quadro delle iniziative di Alternanza scuola-lavoro. L’obiettivo, infatti, non è quello di introdurre i giovani al mondo del lavoro, ma di aiutarli a trovare una bussola per la vita, mettendo da parte lo spirito di competizione e l’ansia da performance per cominciare insieme un vero pellegrinaggio di speranza.
Maddalena, psicologa, racconta che il progetto è fatto per entrare in contatto con la fragilità dei ragazzi e quindi anche con la sua. Spiega che la fragilità è rivelativa: dice chi sei, chi vuoi essere nella tua bellezza, ma anche nella tua stortura. I giovani sono contenitori giganteschi che in questa fase possono definire chi sono, cosa vogliono essere. Per Maddalena, il senso del suo essere tra i giovani a scuola è per dire che la loro bellezza esiste, proprio quando sono affaticati, abbandonati o si sentono messi da parte. Trovarsi tra i banchi di scuola, in mezzo alle vite dei giovani, significa ricercare, per se stessa e insieme a loro, una speranza di relazione; scoprire di essere, in fondo, così simili, pur essendo così unici e diversi. Per lei questa è una speranza che può cambiare il mondo.
Ilaria, oggi studentessa universitaria, dice che, se avesse vissuto anche lei l’esperienza del Pog negli anni del liceo, molte cose della sua vita sarebbero diverse. Si sente portatrice di una speranza: le scelte sbagliate non sono sinonimo di fallimento; per vivere la propria vita è necessario sbagliare, tradendo anche le aspettative di chi ci vuole bene, perché solo morendo a sé, si ritrova veramente se stessi. Ilaria è consapevole che l’unico modo per aiutare i giovani è vivere con loro ciò che si testimonia. In caso contrario, non si può essere compagni di strada.
Per Michele, educatore, la possibilità di incrociare gli sguardi dei giovani, vivere insieme con loro questa esperienza, è già una speranza. Attraverso la condivisone delle proprie vite, non solo si dà, ma si riceve e si vive appieno la bellezza dell’incontro.
Giorgio, anche lui psicologo, spiega che con il Pog diventa centrale il vissuto di ognuno. In queste giornate di sospensione dalla routine scolastica, volontari e giovani raccontano la propria esperienza, i propri limiti, le proprie aspettative in un’ottica di ricerca di senso. Nella condivisione, cicatrici e momenti belli prendono senso e significato.
Per Smilla, al momento senza occupazione, batte il desiderio di vivere una vita autentica. Poterlo fare con i giovani permette di essere autentici.
Simona, tra le prime ad organizzare il Pog, riconosce che i nuovi poveri sono anche i ragazzi, perché vivono in un contesto che impoverisce. Stare con loro ti interroga sempre: cosa sto facendo per loro? Che mondo sto lasciando? Ci si specchia in loro e ci si riconosce nel loro riflesso. Il desiderio è accogliere questa povertà e guardarla in faccia, per lasciare loro qualcosa di più grande.
Chiara, responsabile di sala in un pub, descrive il Pog come presenza viva. Entrare a casa di questi ragazzi per esserci: è tutto quello che serve. Nessuno è bravissimo, ma è quanto ci sei che fa la differenza. Il grido più forte che si sente dai giovani è: tu ci sei? Al centro del progetto ci sono le persone. Per questo Chiara si sveglia presto la mattina, dopo poche ore di sonno a causa del lavoro, e vuole esserci per i ragazzi. Loro lo capiscono e restituiscono con il loro esserci.
Giulia, architetta d’interni, grafica e mamma, è tra le fondatrici del Pog. In questo anno giubilare si è interrogata su cosa significhi essere pellegrini di speranza. Ha proposto la stessa domanda anche ai ragazzi e, alla fine, ha capito che la speranza sono loro, i giovani. Se si guarda al futuro, la speranza per la vita, per l’umanità, sono loro. I giovani sono il nostro cammino. Ci si aggrappa alla loro bellezza per vedere la speranza del futuro. I giovani devono guardarsi per portare bellezza nel mondo.
La sintesi delle testimonianze sul Pog la fa Hortensia, referente del progetto, che, dopo un lungo “pellegrinaggio” tra master e lavori a tempo indeterminato, lascia le sue stabilità e scopre che questo servizio è il suo lavoro. Ha scelto tutto questo perché sente di poter realizzare il sogno che, da piccola, sentiva ripetere: «Vorrei che nessuno si sentisse escluso». Spesso non ci si sente adeguati ad affrontare la vita, ma il vero messaggio da trasmettere è dire che la tua vita, qualunque sia, è perfetta così com’è, non domani, ma oggi. In questa età, i giovani hanno una bellezza che esige di essere contemplata. Il fiore ha bisogno del sole, la vita umana ha bisogno dell’amore: non si può sbocciare senza.
I tre giorni proposti dal Pog sono proprio questo, un colpo d’amore. Entriamo in aula perché non sempre nelle scuole si creano queste occasioni, e, rompendo lo schema della quotidianità, diamo ai giovani la possibilità di riflettersi in uno sguardo d’amore.