La rinascita di Ranir

Della lotta collettiva per la liberazione, sia essa da un tiranno, dall’occupazione di un altro paese o da un regime oppressivo, sono parte integrante le battaglie personali e quotidiane di ogni essere umano. Lo sanno bene le donne siriane che hanno lottato per più di cinquant’anni contro la tirannia fuori e dentro le proprie case. Lo sa bene Ranir che mentre il suo paese prova a rialzarsi da una guerra decennale, ricostruisce la propria nuova vita nella periferia di Damasco, lontana dagli occhi dei genitori e da quelli dell’ex marito.
Ha ventotto anni ed è cristiana. Un sorriso delicato le illumina il volto mentre attende sull’uscio che il figlio Alfredo, il più grande, rientri a casa con la solita busta di pane tra le mani.
«Sono stata sette anni con il mio ex marito - racconta - poi lui ha compiuto un gesto troppo difficile da accettare persino per me che l’avevo sopportato per tutto quel tempo. Avevo accettato i suoi abusi sul mio corpo, ma non potevo accettare violenze sui miei figli. È stato allora che ho deciso che me ne sarei andata e che non sarei mai più tornata indietro».
Due anni fa Ranir fugge dalla casa dove viveva con il marito e i suoi due figli. «Casa mia era un incubo, non potevo dormire, avevo paura che in qualsiasi momento il mio ex marito avrebbe potuto picchiarmi o abusare di me o far del male ai miei figli», continua la donna. Inizialmente Ranir va nella casa dei genitori, chiede aiuto, «ma loro, come spesso accade in ragione di tradizioni dire a morire, mi hanno riportata da lui».
Pensava che sarebbe stata la sua fine, ma nel momento in cui non vedeva più nessuna via d’uscita, se non la morte, Ranir incontra le suore del Buon Pastore e la loro casa rifugio. «Quando stavo ancora con mio marito andavo ogni giorno in chiesa, per chiedere a Dio di salvarmi. Lì c'era una donna che pregava sempre accanto a me e presto ha capito che mio marito mi picchiava e mi ha consigliato di andare dalle suore del Buon Pastore a chiedere aiuto» dice mentre prepara un caffè arabo su un fornello da campeggio - l’unico che ha in casa. «Ricordo ancora - sottolinea - la prima volta che mi sono recata dalle sorelle era un giovedì, sono arrivata davanti al portone chiuso del convento, ho bussato così forte che alla fine mi hanno aperto, ma mi hanno detto che sarei dovuta tornare il lunedì. Ho iniziato a piangere disperatamente gridando che non potevo tornare da mio marito o mi avrebbe uccisa, e i miei genitori non mi accettavano più. Così mi hanno fatta entrare».
È qui, tra le stradine della città vecchia di Damasco, che Ranir troverà la salvezza, come altre centinaia di donne accolte negli ultimi otto anni da suor Safaa Elbitar e da suor Georgina Habach, entrambe siriane.
«Ho lavorato in Africa, in Europa e per un periodo anche a Beirut»”, racconta suor Safaa nella stanza del convento in cui ci accoglie, «ho deciso di tornare qui perché volevo aiutare la mia gente, sono stata anche io sfollata e vittima della violenza durante la guerra civile siriana e il regime degli Assad, conoscevo benissimo quel dolore, chi meglio di me poteva aiutare chi lo stava ancora affrontando?».
Così nel 2017, insieme a Georgina, Safaa apre il convento delle Suore del Buon Pastore a Damasco. Mentre ne parla le brillano gli occhi color verde smeraldo, «per noi è stata una rivoluzione aprire questo posto» dice.
«Quando mi hanno fatta entrare nel convento non mi fidavo, avevo paura che le sorelle fossero d’accordo con i miei genitori e presto mi avrebbero riportata indietro» ammette Ranir, «ma non avevo altra scelta, o restavo con loro o avrei ucciso me stessa e i miei figli. Piano piano ho iniziato a fidarmi e con il tempo mi sono sentita al sicuro. Vivevo con altre ragazze fuggite da violenza domestica, e presto ho iniziato la terapia per me e per i miei figli. Avevo tutti a mia disposizione, le sorelle, i servizi sociali, la terapista, e l’avvocata. Ognuna di loro ha cambiato la mia vita».
Le suore del Buon Pastore, oltre ad aprire il convento, hanno infatti dato vita a diversi progetti di tutela per le donne e le loro famiglie. Primo fra tutti il centro anti-violenza e il rifugio, che adesso - dopo la caduta del regime di Assad - è stato chiuso, in attesa del trasferimento in un luogo segreto onde evitare che venga smantellato. Del rifugio fanno parte anche una serie di case prese in affitto dalle suore nella periferia della città, dove le donne come Ranir vivono per un po’, nell'attesa di essere totalmente al sicuro e indipendenti. «Oltre il rifugio - continua suor Sanaa -abbiamo fondato il Trust Center, il primo centro di psicoterapia in Siria dove lavorano anche gli assistenti sociali, per aiutare ogni essere umano che ne abbia bisogno, di qualsiasi sesso e religione. Poi abbiamo il Feminist Support Center per i bambini e i loro genitori. Abbiamo il Family re-liberation, unico centro nel paese per la terapia di coppia e infine il Family Guidelines, che aiuta i giovani a seguire la retta via e la parola di Dio».
Al sicuro dalle suore, ma non senza fatica, Ranir riesce ad ottenere il divorzio: «Dopo il supporto psicologico abbiamo iniziato a lavorare con l’avvocata ai documenti legali. Quando giuridicamente non sono stata più la moglie di quell’uomo mi sono sentita finalmente libera. Ricordo che ripetevo sempre all’avvocata che questo è un mondo solo per uomini e lei si arrabbiava tantissimo. Stare con le suore mi ha insegnato che ci sono modi per rivendicare i diritti delle donne anche dentro le leggi siriane. Questo ha cambiato il mio modo di pensare e adesso so che questo non è un mondo solo per uomini, non è una società solo per uomini. Non starò qui ad aspettare un uomo per conquistare la mia vita» afferma la donna con le lacrime agli occhi.
Di norma il tempo massimo di permanenza nel rifugio è di sei mesi, ma se necessario ogni ragazza può chiedere alle suore di restare di più. Ranir dopo cinque mesi e mezzo decide che è ora di andar via: «Mi sentivo pronta. Mi sono sentita bene come mai nella mia vita, allora ho deciso che era il momento di andare. Suor Georgina mi aveva detto che sarei potuta rimanere un anno, che sarebbe stato meglio avendo due figli piccoli, ma io volevo dimostrare a me stessa che potevo farcela. Oggi sono molto orgogliosa di me stessa, ho sistemato questa casa da sola, sono riuscita a comprarmi il cellulare, ho fatto tutti i lavori possibili per poter sopravvivere e dare una vita dignitosa ai miei figli».
Adesso il sogno di Ranir è quello di aprire un salone di bellezza, per farlo però è costretta ad aspettare. Come tutti nel Paese non sa ancora cosa succederà con il nuovo governo di transizione e, in quanto donna e cristiana, ha paura che ci siano limitazioni. «Non penso a risposarmi, però come donna da sola non sono vista bene in città, mi è successo ultimamente che mi chiedessero per strada cosa facessi in giro da sola. Nessuno sa come sarà il futuro».
Al nuovo governo Ranir chiederebbe una cosa: che il sussidio previsto per le donne sole con figli venga aumentato. «Per legge adesso il mio ex marito mi da circa 50 dollari al mese, che qui a Damasco sono pochissimi, non riesco neanche a comprarci le verdure per i bambini. Vorrei che il nuovo governo cambiasse questa legge perché la libertà si ottiene con le leggi, anche quella delle donne» conclude.
Su Damasco scende la sera, Ranir prepara la cena per i suoi due figli mentre fuori il Muezzin richiama alla preghiera.
Per strada ci sono solo uomini, ci ricordano che le siriane hanno ancora paura di uscire la notte.
Testo e foto
di Lidia Ginestra Giuffrida