· Città del Vaticano ·

Il racconto del sabato

Il violino e il violinista

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29 marzo 2025

di Maurizio Cotrona

«Non sono stato io». «Ma come t’è venuto?». «Marco che ti ha detto. Si è sentito in imbarazzo?». «Ma come cavolo t’è venuto?». «Non c’entro io. Non sono stato io». Sarà stata la nostalgia, sarà stata la paternità, sarà stata la bellezza.

Stamattina sono andato a leggere Zanna Bianca in classe di mio figlio. Ho scelto un romanzo che adoravo alla loro età e adoro ancora oggi, alla mia. Le prime duecento pagine di Zanna Bianca sono una cosa che…

Ho portato con me l’edizione Bur del libro e alcuni fogli stampati con dei brani dell’edizione Newton che ho trovato in rete. Ho tutto un piano in mente. Zanna Bianca è un cane-lupo, io vorrei accompagnare i bambini fino alla scena in cui Zanna Bianca si ritrova ai margini del campo indiano in cui ha vissuto con il suo padrone e guarda la foresta, sospeso tra la vita del cane e quella del lupo. Vita da lupo: fuggire nella foresta e vivere libero cacciando e lottando per la sopravvivenza. Vita da cane: rimanere con il padrone, obbedirgli ricevendo in cambio carne, calore e protezione. A quel punto avrei chiesto ai bambini quale vita avrebbero scelto e loro mi avrebbero di certo risposto con un fitto ululato.

Non ci arriverò neanche vicino.

Mi fanno accomodare in quella che chiamano “aula immersiva”. Poltroncine variopinte sparse in una stanza che ha soffitto, pavimento e pareti ricoperte da pannelli fonoassorbenti scuri e, in effetti, sembra di essere dentro una cassa armonica. Mi invitano a leggere senza particolari introduzioni e anche io le evito. Quando ringrazio le “maestre” per avermi invitato, i bambini non trattengono il riso: guai a chiamare “maestre” le insegnanti di prima media! Inforco occhiali da presbite, ora la pagina è nitida mentre le professoresse e una ventina di bambini accomodati sulle poltroncine, sfumano.

Leggo l’incipit senza sforzo, perché l’acustica è ottima. Faccio lunghe pause tra un periodo e l’altro, per lasciare alle parole il tempo di compiere il proprio arco sonoro.

La scura foresta di abeti si stendeva accigliata su entrambe le rive del corso d’acqua gelato. Gli alberi, squassati da un improvviso vento, si erano liberati del loro manto di brina e sembravano appoggiarsi l’uno contro l’altro, neri e sinistri contro la luce del crepuscolo. Un silenzio profondo incombeva su tutta la zona, una zona desolata, priva di qualsiasi segno di vita, immobile, così solitaria e fredda da non poter ispirare neanche il senso della tristezza.

Leggo qualche riga ancora, attraversando con voce ferma “l’incomunicabile saggezza dell’eternità che scherniva la vanità della vita e i suoi sforzi” evocata da London, proseguo fino all’esplosione di quell’ “eppure vi era la vita, da quelle parti, una vita che sfidava quella terra”, che apre il secondo capoverso.

Cambio gli occhiali e faccio una lunga pausa. Sui pannelli fonoassorbenti sono riprodotte le venature del legno e la volta è leggermente a botte. I bambini si guardano e mormorano, un maschietto si fa coraggio e confessa che non ci ha capito niente, gli altri lo sostengono. Io rispondo che hanno ragione, che anche per me si tratta un testo difficile, ma che il bello è proprio questo. London non ci dà una pappa già masticata, ci chiede uno sforzo ma si tratta di uno sforzo che verrà ripagato — glielo prometto, portando una mano al petto — perché, quando l’avremo compiuto, ci troveremo immersi in un mondo unico, evocato da London ma generato dalla nostra immaginazione. Ciascuno la propria.

«Proviamoci assieme» dico, e rileggo le prime righe. Metto da parte i fogli stampati e leggo direttamente il libro, è una traduzione leggermente diversa.

La scura foresta d’abeti si addensava accigliata da ambe le parti sul corso d’acqua gelato. Gli alberi, spogliati di recente dal vento del bianco rivestimento di brina, sembravano appoggiarsi gli uni agli altri, neri e sinistri, nella luce morente...

Qui la mia voce, che già aveva cominciato a piegarsi sul “corso d’acqua gelato”, si spezza. Mi fermo, prendo un respiro e, mentre sento addensarsi delle lacrime agli spigoli dei miei occhi, già mi sto chiedendo “perché”.

Una professoressa mi viene in soccorso e chiede ai bambini com’è, secondo loro, una foresta “accigliata”. Loro esercitano la propria immaginazione, dicono che la vedono “triste”, oppure “fitta”, oppure “scura”, io mi chiedo perché la prima lettura è andata liscia e nella seconda, invece, mi sono sciolto. La seconda traduzione è capace di addensare una maggiore bellezza, ma escluderei che la colpa sia di quel “si addensava” al posto del “si stendeva” o della “luce morente” al posto della “luce del crepuscolo”

Mi asciugo le lacrime con un quadrato di carta igienica che uso da segnalibro. Marco, paonazzo, si guarda i piedi. Faccio un bel respiro e riprendo il controllo. Porto avanti la storia con parole mie, accompagnando i bambini fino alla nascita di Zanna Bianca, nella grotta. Gli spiego che ho scelto questo libro perché la condizione di Zanna Bianca è simile a quella della loro età. Il cane-lupo è diviso tra la legge imposta dalla mamma e dalla paura dell’ignoto che lo aspetta fuori dalla grotta, e l’impulso della crescita, che gli chiede di uscire, di camminare verso la parete di luce. Parlo senza inciampi, la mia voce non mi commuove.

Mi faccio coraggio. Inforco gli occhiali giusti e leggo.

Ma c’erano anche altre forze che agivano in lui. E la più prepotente era quella della crescita. L’istinto e la legge gli chiedevano l’ubbidienza, mentre la crescita esigeva da lui la disobbedienza. La madre e la paura lo invitavano a tenersi lontano dalla parete di luce. Però la crescita è vita, e la vita è un invito alla luce.

La prima volta che leggo la parola “vita” la gola mi si stringe come una pezza strizzata, provo a forzare la voce attraverso quel nodo, ma non riesco a dare fiato alla seconda “vita”, perché nello scarto tra l’istante in cui i miei occhi guardano la parola e quello in cui le mie labbra dovrebbero pronunciarla, si apre una breccia e, questa volta, non sono poche lacrime a bagnarmi gli occhi ma vengo travolto un pianto infantile, un pianto a singhiozzi che mi fa sobbalzare le spalle.

Nascondo la faccia nelle mani e di nuovo mi domando “perché?”. Qualcosa del Maurizio bambino sta cercando di emergere? È la luce di mio figlio, qui davanti a me?

Devo averlo messo sul serio in imbarazzo, Marco. Una volta tornati a casa, abbiamo già cenato e sto sciacquando i piatti, quando lui trova il coraggio di riprendere l’argomento. Deve averne parlato prima con la mamma, perché mi dice: «Non hai pianto neppure quando sono nato io!» E poi, con una voce così bassa da superare a fatica il rumore dell’acqua che scorre: «devi tornare di nuovo a leggere a scuola, pa’?»

Io non lo guardo, non dico nulla. Aspetto che me lo chieda esplicitamente: «perché oggi hai pianto, papà?»

«Non volevo. Ma le parole di quel libro sono belle».

«È solo un libro».

«In un libro ci sono parole e le parole suonavano bene stamattina».

Mi asciugo le mani. Lui storce le labbra, non sembra troppo convinto. Si allontana, corre dalla mamma e sento dirgli che papà ha pianto perché le parole suonavano bene. Tornano insieme da me, lei prova a scherzare.

«Non posso mandarti da nessuna parte. Ma come t’è venuto?»

«Non volevo. Non sono stato io».

Con uno doppio schiaffetto sulle ginocchia invito Marco a sedersi sulle mie gambe. «Sta tranquillo», gli dico. «Sto bene. Non volevo piangere, ma piangere non è una cosa brutta».

È così. Non volevo piangere. Non sono stato io. Non c’entro io.

Il resto non glielo dico subito, ma lo scrivo ora. C’è sempre un resto. Il resto lo scrivo adesso e un domani, forse, lui lo leggerà su «L’Osservatore Romano».

Stamattina, nell’aula immersiva della sua scuola, ho avuto la limpida sensazione di essere suonato, di essere suonato da qualcuno. Ho sentito di essere un violino, non il violinista ma un violino e, come un violino, sono stato suonato da qualcun’altro. Un altro che aveva le parole di London come dita e i bambini come corde, io sono una cassa armonica e mi sono lasciato suonare. Sono stato suonato, non sono stato io.

Sono stato suonato e non è una cosa brutta.


Questo racconto riporta, con rare licenze artistiche, un’esperienza fatta dall’autore nell’ambito del progetto Libriamoci, iniziativa del Cepell (Centro per il libro e la lettura), che ogni anno coinvolge le scuole italiane di ogni ordine e grado, nell’ascolto di letture ad alta voce. «Zanna Bianca» (titolo originale «White Fang») è un romanzo dello scrittore statunitense Jack London, pubblicato per la prima volta a puntate tra il maggio e l’ottobre del 1906 sulla rivista «Outing». L’edizione Bur citata è del 1955 (traduzione di Beatrice Boffito). Gli stralci ripresi dall’edizione Newton, invece, sono tradotti da Gino Scerrato e si trovano all’interno del volume «London. I grandi romanzi e i racconti» (Newton Compton Editori, 2011).