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Bailamme

«La vesta che al gran dì sarà sì chiara»

 «La vesta  che al gran dì  sarà sì chiara»  QUO-071
28 marzo 2025

di Giovanni Ricciardi

Ho conosciuto la serva di Dio Chiara Corbella Petrillo solo per sentito dire. Mia sorella l’aveva incontrata con suo marito Enrico in un gruppo di amici comuni. Ne era nata un’amicizia semplice.

Negli anni delle sue tre gravidanze, le prime due portate a termine benché fosse evidente che i bambini avevano malformazioni tali da non essere compatibili con la vita se non per pochi minuti, la terza invece normale, ma accompagnata dalla scoperta che Chiara aveva un carcinoma alla lingua, per il quale lei stessa decise di sospendere quelle cure che potessero danneggiare il figlio che portava in grembo: in quegli anni queste notizie mi arrivavano dai resoconti di mia sorella, che mi raccontava la disgrazia e la speranza, lo stupore di una fede che non arretrava davanti al male, non per uno stoicismo estremo e folle ma per una fiducia dolce e misteriosa.

Tuttavia, la notizia della sua morte a 28 anni mi gettò in un tacito sgomento.

Il pensiero rifiutava l’idea che Dio potesse destinare ai suoi fedeli una simile somma di mali. Mentre la fama di Chiara esplodeva in tutto il mondo, mi restava la sensazione di un peso troppo grande: occorre “rifiutare la vita” per entrare nella porta stretta? Occorre davvero rinunciare a sé fino a questo punto? Non è vero dunque che il giogo di Cristo è leggero?

«Siamo nati e non moriremo mai più» fu il titolo dato alla prima biografia di Chiara. Mi chiesi: ma questa verità è davvero reale? Nessuno può saperlo per esperienza: l’aldilà, quel «paese inesplorato, da cui nessun viaggiatore fa ritorno», possiamo ignorarlo o temerlo in modo agghiacciante, come accade ad Amleto, il principe di Danimarca, colui che meglio rappresenta l’uomo moderno.

Ma considerare naturale che la morte sia solo una porta che apre all’infinito, questo era il problema.

Per l’uomo medievale la cosa forse appariva più facile da considerare.

Francesco la chiama «sorella», questa nostra morte corporale dalla quale «nullu homo vivente po’ scappare». Ma quella che Francesco davvero temeva era la «morte secunda» e la possibilità ch’essa ci trovi «ne le peccata mortali».

Chiara era andata a bussare a quella porta con una fiducia potente. E quella fiducia è senza dubbio un miracolo grande, una nuvola di grazia che alla sua morte si è disciolta come pioggia.

E che non toglie la paura. Piuttosto, affretta la speranza.

Anni dopo, giorni fa, alcuni amici hanno chiesto a mia sorella perché secondo lei Chiara avesse suscitato tanto “rumore” in tutto il mondo.

Lei ha risposto: «perché Chiara indica il Paradiso. E nella Chiesa non si parla spesso del Paradiso».

Allora mi è venuto in mente Dante. E forse ho capito un po’ meglio perché a custodire l’ingresso del Purgatorio il poeta abbia messo una figura sconcertante, dottrinalmente parlando: un pagano, per di più suicida. Il vecchio Catone, inspiegabilmente santo, lui che non conosceva Cristo, lui che si era tolto la vita pur di non cadere nelle mani del suo nemico.

A lui Virgilio chiede che il poeta possa salire la montagna che lo condurrà lassù, all’incontro con Dio: «Or ti piaccia gradir la sua venuta / libertà va cercando, ch’è sì cara / come sa chi per lei vita rifiuta». È un dato storico, la circostanza in cui Catone morì, ma è anche simbolo d’altro, o d’altri: non è forse vero che i martiri hanno “rifiutato la vita” perché era loro cara quella libertà di cui conoscevano il Nome dolcissimo? Sapevano, in speranza, che siamo nati e non moriremo mai più. «Tu ‘l sai», continua Virgilio rivolgendosi a Catone.

Prima non lo sapevi, ora lo sai. E ora lo sa anche Dante, quel Dante che tanto amò Francesco, come l’amò Chiara Corbella.

Quel Dante che immaginò di fare proprio ciò che Amleto esclude: attraversare «il paese inesplorato, da cui nessun viaggiatore fa ritorno» e ritornare, perché la morte «secunda» non gli facesse male.

Né male all’anima né al corpo, a quella “veste” di cui ci spoglieremo ma non per sempre, perché anch’essa ci seguirà “nel grande giorno”: «Tu ‘l sai, ché non ti fu per lei amara / in Utica la morte, ove lasciasti / la vesta ch’al gran dì sarà sì chiara». (giovanni ricciardi)