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La buona Notizia
Il Vangelo della IV domenica di Quaresima (Lc 15,1-3.11-32)

Il mormorare dei farisei
e degli scribi contro Gesù

 Il mormorare dei farisei e degli scribi contro Gesù  QUO-068
25 marzo 2025

di Mariapia Veladiano

Un padre debole, un figlio scimunito ma l’unico che esce male dalla parabola è un bravo ragazzo. È una parabola urticante che abbiamo addomesticato, nella predicazione, enfatizzando il pentimento del figlio giovane che se ne va, facendone una parabola sulla conversione e il rimorso. In realtà il padre si alza, va incontro al figlio e lo abbraccia, prima che questo abbia fatto la sua professione di rimorso. Lo accoglie a prescindere. Uno scrittore potrebbe essere interessato a un secondo atto, in cui il figlio chiede di nuovo, pretende e poi parte. Perché capita anche questo e la vita non è sempre così lineare. A volte i figli tornano e poi se ne vanno di nuovo, lasciando i genitori nell’attesa una seconda e terza e quarta volta. Ma Gesù non sembra concentrato sul figlio marpione. È chiaro che il padre si alzerebbe infinite altre volte, e che la parabola ha il suo punto di interesse nel figlio bravo ragazzo che nel frattempo resta. Dove? Certamente resta a casa, ma soprattutto resta a raccogliere l’amore del padre ogni giorno che il cielo manda sulla terra. Resta lì perché è amato e ama. O così il padre pensa. Il contesto è il mormorare dei farisei e degli scribi contro Gesù che frequenta mala gente. Mormorare è un verbo umano molto umano. Chi mormora non parla ad alta voce, non affronta la questione, non interroga a viso aperto, non chiede spiegazione da pari a pari. No. Invece fomenta. Aizza. Sta sotto squadra e spesso nell’ombra. Giudica e corrompe le emozioni, così che il mondo sospetta e si sente arrabbiato e offeso. Tutto il contrario del voler bene. Il figlio maggiore sospetta, appunto. I suoni della festa lo sorprendono estraneo. È accaduto qualcosa che non sa, ma non chiede apertamente al padre, non entra in casa, chiede ai servi. Potremmo dire che vuole farsi un’idea, ma da una posizione prudente di distanza, non si coinvolge. E tutto quello che lo riguarda lo colloca fuori dal contesto degli affetti. C’è un fare, il lavoro dei campi, che sembra, alla luce di come lui il figlio maggiore si comporta, obbligato, normalizzato, ovvio. Non ha dato nessun problema mai, lui. Il figlio ideale e in effetti, alla luce della risposta del padre, lo è. È un figlio amatissimo: «Tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo». Non è una parabola moraleggiante. È dirompente. Viene in mente la splendida sequenza di Pentecoste: «Piega ciò che è rigido». Lo chiediamo allo Spirito Santo. Piegare può essere tradotto con cambiare, persuadere. Piegaci alla varietà immensa del mondo. C’è chi resta a casa e c’è chi va. Ciascuno di noi ha esperienze misteriosamente differenti. A uno può dar gioia la conformità, l’essere sufficientemente omogeneo e allineato, se questo dà gioia e mi permette di riconoscere i doni della vita, va bene. Benissimo. Ma se non mi ha dato gioia, se è stata una autolimitazione mortificante, ecco, non posso riconoscere la diversità di chi arriva allo stesso punto, al padre, all’amore del padre, da una strada tortuosa.

Dove sta la mia gioia? Se sta dove sono, ovvero accanto al padre, non ho ragione alcuna per essere infastidito dalla festa.