
di Roberto Cetera
Due settimane fa avevamo titolato una conversazione con l’analista e mediatore israeliano Gershon Baskin “La tregua è finita”. A qualcuno era sembrata avventata. Ma non era preveggenza o eccesso di pessimismo. Era piuttosto la semplice considerazione che un piano per la gestione futura di Gaza erano ben lungi dal definirsi e che le ragioni di politica interna sembravano ostacolare il raggiungimento di una pace effettiva e duratura.
Le difficoltà frapposte da parte israeliana al passaggio alla fase due della tregua, così come era stato programmato nell’accordo del 19 gennaio scorso, non lasciavano presagire nulla di positivo. Che il passaggio alla fase due fosse assai ipotetico era peraltro indicato dalle pressioni esercitate dai rappresentanti dell’estrema destra nazionalista religiosa rappresentata dai ministri Bezalel Smotrich e Itamar Ben Gvir, indispensabili a garantire una maggioranza parlamentare al governo di Benjamin Netanyahu. Così come il dialogo tra le parti è sicuramente risultato ostacolato dalla proposta choc del presidente americano Trump di spingere i palestinesi di Gaza a migrare verso altri paesi arabi. Proposta che aveva suscitato la disapprovazione di gran parte della comunità internazionale, e, in questa, del cardinale segretario di stato Pietro Parolin, che il 13 febbraio scorso ha dichiarato con fermezza l’opposizione della Santa Sede ad ogni ipotesi di “deportazione”.
Purtroppo la previsione di Baskin è risultata azzeccata e le forze armate israeliane (ora comandate dal generale Eyar Zamir, considerato assai più vicino a Netanyahu di quanto fosse il suo predecessore Herzi Halevi) hanno attivato unilateralmente una nuova campagna militare, iniziata con bombardamenti aerei e che sta proseguendo in queste ore con l’ impiego di truppe di terra e mezzi corazzati. Mentre scriviamo il numero di vittime avrebbe raggiunto già quasi 800 unità, con un numero rilevante di bambini. I video che ci arrivano dai pochi reporter rimasti nella striscia sono raccapriccianti e mostrano madri disperate davanti a corpi di bambini, anche neonati, sepolti dalle macerie. Hamas ha risposto con il lancio (per la prima volta da mesi) di alcuni razzi verso Tel Aviv, così come nelle ore precedenti erano stati intercettati missili lanciati dagli Houtis in Yemen. Intanto in Israele si vivono ore di forte tensione interna. Le manifestazioni di piazza contro il governo Netanyahu sono state massicce, e la polizia ha reagito usando idranti per disperdere le folle. La preoccupazione dei cittadini israeliani è che la ripresa dei bombardamenti a Gaza possa pregiudicare il rilascio degli ostaggi israeliani ancora nelle mani di Hamas dentro Gaza.
Ma nelle ultime ore un’altra pesante nube si è palesata sul governo. Ed è la disfida che lo sta opponendo al capo dei servizi segreti interni, Shin Bet, che Netanyahu vuole dimettere, malgrado il diverso avviso dell’autorità giudiziaria. Il servizio di intelligence avrebbe presentato un’analisi, prima del 7 ottobre, che metteva in guardia l’esecutivo dalla possibilità di un evento quale quello che si è poi effettivamente verificato, ma che Netanyahu ha volutamente ignorato. Il rapporto dello Shin Bet metteva in evidenza la pericolosità della politica del primo ministro che consisteva nel consentire il passaggio di ingenti finanziamenti del Qatar verso Hamas, nella convinzione che questo “favore” avrebbe impedito ad Hamas di compiere attacchi rilevanti contro Israele. In queste ore la stampa e tv israeliane hanno rivelato che le indagini dello Shin Bet dimostrerebbero il trasferimento di somme di denaro dal Qatar al portavoce per gli affari militari di Netanyahu, Eli Feldestein. Il ruolo poco trasparente del Qatar era stata rilevata già un anno fa sulle colonne di questo giornale dall’ ex primo ministro Ehud Barak e dall’ esperto di intelligence e ora presidente dell’istituto Memri Yigal Carmon. Feldestein era stato già arrestato lo scorso novembre con l’accusa di aver trafugato informative classificate e trasferite ad alcuni media stranieri. L’ex primo ministro, e anch’egli esponente della destra, ha chiesto ieri le dimissioni immediate di Netanyahu, accusandolo di “tradimento” e di aver «perso l’autorità morale per mandare soldati al fronte», stante il fatto che uno dei suoi più stretti collaboratori era di fatto stipendiato dal Qatar, cioè dai finanziatori di Hamas. Che la pressione su Netanyahu sia ormai al vertice è confermato dalle inaspettate dichiarazioni del presidente israeliano Isaac Herzog, noto per il suo stile sempre prudente. Herzog, pur non nominando Netanyahu, ha criticato uno stile «divisivo e unilaterale», aggiungendo che «non è possibile non essere preoccupati per la dura realtà che si presenta ai nostri occhi. Migliaia di cartoline di richiamo sono state spedite ai riservisti recentemente, ma è inconcepibile mandare i nostri figli al fronte mentre nel contempo vengono perseguite mosse controverse che rendono più profonde le divisioni interne». E poi ancora: «È impossibile ricominciare i combattimenti per adempiere al sacro comando di riportare gli ostaggi a casa, e allo stesso tempo non ascoltare e non supportare le loro disperate famiglie che attraversano l’inferno in terra». Herzog ha poi espresso il suo sostegno alla richiesta delle famiglie per un’inchiesta indipendente sui fatti del 7 ottobre, inchiesta sempre rigettata da Netanyahu. Ed ha espresso la sua solidarietà ai civil servant colpiti da provvedimenti unilaterali, con evidente riferimento al licenziamento del capo dello Shin Bet. Dichiarazioni immediatamente assunte dalla grande manifestazione che si è svolta in serata a Gerusalemme contro il licenziamento di Ronen Bar e la fine unilaterale del cessate il fuoco a Gaza.