
di Roberto Cetera
L’armonia dei suoni viene prima della parola, ed albergando nella parte più interna della sfera cerebrale permea anche il pensiero e la ragione. Per questo quando un musicista si cimenta nella scrittura creativa inevitabilmente imprime una musicalità al suo testo. È quello che accade ad esempio al bel libro di Lucia D’Anna, giovane musicista di Gerusalemme, alla sua prima prova letteraria La terra non promessa. Edizioni Sonitus, Monvalle, 2024, euro 15). Lucia, nata e cresciuta, in Italia, ha completato i suoi studi da violoncellista a Gerusalemme, dove ha continuato poi a vivere, formando una famiglia, ed insegnando nell’Istituto Magnificat — collegato al conservatorio di Vicenza — dei francescani della Custodia di Terra Santa. Un istituto nato all’insegna dell’interreligiosità, tra cristiani, musulmani ed ebrei, che con una certa frequenza si esibisce anche in Europa. E il melting pot gerosolimitano è anche la cifra dei 12 racconti contenuti nel libro. Racconti della ferialità, di tensione, timore, rabbia e mestizia, che è succeduta al 7 ottobre, in ambedue i campi del conflitto. Racconti che vedono protagoniste principalmente donne, con la loro riflessività, ponderazione, comprensione, delicatezza. Anche la loro sofferenza assume, nella scrittura di Lucia D’Anna, una malinconica dolcezza. E poi i bambini, le vittime principali di questa assurda guerra. La tragedia del 7 ottobre, e gli altrettanto tragici eventi che l’hanno seguita, hanno inciso profondamente nelle relazioni umane di chi abita questa martoriata terra. Relazioni — se non di amicizia almeno di rispettosa vicinanza — che faticosamente si erano costruite negli anni si sono sbriciolate in un clima ora di paura, diffidenza e sospetto. I racconti di questo libro fotografano questa sopravvenuta realtà, cercando di cogliere in ognuno dei protagonisti quel germe di umanità che sempre risiede in ciascuno, un’umanità però dolente. E un’umanità anche varia e disparata che D’Anna rintraccia nell’ansia di libertà del bambino che cresce nel rigore degli haridim di Mea Sharim, così come nel suo coetaneo Omar che a Gaza si trova ad improvvisare la pietosa sepoltura del suo fratellino Ibrahim che raccoglie nella tenda colpita dalle bombe israeliane, o anche nel piccolo Khader che in mezzo a tanto orrore cerca la compiutezza della sua misera vita nel suono del violoncello che sta studiando. E poi nella donna israeliana, colona, appassionata sostenitrice dell’occupazione delle terre palestinesi, che quando verrà colpita da quella stessa da quella spirale di violenza che ha contribuito ad alimentare, troverà la forza di rivedere la sua vita passata ed uscire dal tunnel dell’odio che l’aveva contagiata. E poi ancora quella quotidianità fatta di snervanti attese per il transito ai check point, fatta di muri che chiudono i corpi e i sogni, e della cupa e miserevole vita nei campi profughi, e di un mare che, per quanto vicino, non si potrà mai vedere. Ma anche dell’immersione continua nella paura e circospezione che domina la vita degli ebrei israeliani. D’Anna, scrivendo di questa sofferenza diffusa, non pretende di erigersi sullo scanno della neutralità: non è un libro imparziale, è un libro di parte, dalla parte di chi soffre.