Viaggio lungo un fronte

di Vincenzo Giardina
Prima in taxi e poi in moto. Su asfalto e fango, lungo la Route nationale 2 e giù per i villaggi, attraversando il fronte: dalle zone passate sotto il controllo dei ribelli del Mouvement du 23 mars (M23) a quelle presidiate dai “patrioti” wazalendo, ora alleati dell’esercito. «Alla prima barriera mi hanno fermato ma appena ho cominciato a parlare kiswahili mi hanno riconosciuto come “il prete di Kitutu” e mi hanno lasciato passare», racconta a «L’Osservatore Romano» padre Davide Marcheselli, missionario nella provincia del Sud Kivu, nell’est della Repubblica Democratica del Congo: «La strada si è aperta quasi fosse il mar Rosso con Mosè; poi infatti si è richiusa perché dalle parti di Walungo sono ripresi i combattimenti».
Origini bolognesi, in Sud Kivu dal 2020, associato ai saveriani, padre Davide racconta l’ultima parte di un grande viaggio africano: sorta di periplo dovuto a quella che già fu e si teme possa di nuovo essere la «grande guerra africana», come quella combattuta per il potere, l’oro, il coltan e il cobalto del Congo tra il 1997 e il 2003 da otto paesi e una ventina di gruppi armati.
Ma seguiamo il viaggio dall’inizio. È gennaio quando Marcheselli parte in aereo per la capitale Kinshasa insieme con dieci compagni di viaggio. Rappresentano le comunità di Kitutu e di altri villaggi. Il loro impegno è pladoyer, cioè “sensibilizzare”, sui problemi legati allo sfruttamento dei filoni auriferi nel Sud Kivu. A Kinshasa si tengono incontri con esponenti del governo e della Chiesa. Nel frattempo il Congo va di nuovo in pezzi. Lo confermano le notizie in arrivo da Goma, nel nord del Kivu, una regione ricca di minerali e per questo contesa da qualsiasi belligerante. Il Mouvement du 23 mars ha preso la città e sta avanzando verso sud. Padre Marcheselli ricorda: «All’andata avevamo viaggiato su un aereo di linea, dall’est all’ovest del Congo, ma adesso questo era impensabile; prima hanno chiuso l’aeroporto di Goma e poi, dopo che avevamo già cambiato i biglietti, anche il piccolo scalo che serve Bukavu, il capoluogo del Sud Kivu».
Le difficoltà non riguardano solo i mezzi di trasporto ma anche le procedure burocratiche. «L’unica possibilità era un volo dell’Ethiopian in partenza da Kinshasa», ricorda il missionario. «Ci avrebbe portato ad Addis Abeba, da dove avremmo preso una coincidenza per Kigali, la capitale del Rwanda, e tentato poi il passaggio via terra in Repubblica Democratica del Congo: invece di percorrere 2300 chilometri ne avremmo dovuti fare 6800 ma soprattutto servivano passaporti, che non tutti avevano, perché con noi c’erano contadini e persone semplici che non avevano la necessità né i soldi per documenti del genere». Bisogna aspettare una ventina di giorni. Giorni segnati anche dalle proteste popolari per i fatti nell’est. A Kinshasa sono assaltate le ambasciate di Francia e Stati Uniti, accusate di favorire l’M23 e il Rwanda che lo sosterrebbe, mentre chi parla kiswahili è guardato con sospetto. Spiega padre Davide: «C’è l’idea, del tutto infondata, che chi conosce quella lingua diffusa anche nel Kivu stia dalla parte dei ribelli». I viaggiatori riescono infine a ottenere i nuovi passaporti e, atterrati a Kigali, si dirigono in pullman verso la frontiera del Congo.
Al confine arrivano all’alba. «Non abbiamo trovato alcuna difficoltà, anche se dal lato congolese invece della solita polizia di frontiera c’erano controllori in abiti civili, collaboratori dell’M23», racconta Marcheselli: «Un giovane mi ha domandato chi fossi e quando ha saputo che ero un prete mi ha chiesto di pregare per lui». E ancora, a tema passaporti: «Sul libretto mi hanno messo lo stesso timbro di sempre, quello della Repubblica Democratica del Congo», dice il missionario, «come se il cambiamento della situazione non contasse affatto».
Da Bukavu a Kitutu mancano però ancora 180 chilometri. «Ci abbiamo messo un giorno e mezzo, prima in taxi e poi in moto, dormendo nella parrocchia di Kamituga», racconta padre Davide Marcheselli. «Ora siamo di nuovo a casa, anche se per comunicare con il mondo bisogna provare nel campo dietro la chiesa, l’unico punto dove ogni tanto internet prende ancora».