Francesco araldo di pace

di Antonella Palermo
Ricordi d’infanzia, amicizia di confratello, sostegno a distanza, appello alla Chiesa: c’è tutto questo nelle parole e nei ricordi che condivide con i media vaticani monsignor Ernesto Giobando, vescovo gesuita della diocesi di Mar del Plata, dopo essere stato ausiliare di Buenos Aires dal 2014 al 2024. In un’epoca di forti polarizzazioni ideologiche, il magistero di Francesco, ha sottolineato il presule, è quanto mai provvidenziale e necessario da mettere in pratica.
Quale tratto del pontificato di Papa Francesco le piace oggi sottolineare?
È stata una sorpresa quando Francesco è stato eletto Papa, perché in realtà era già pronto per andare in pensione, e la Chiesa, i cardinali, hanno visto in lui una persona che poteva raccogliere le sfide dell’evangelizzazione di allora e anche di oggi. Ecco perché Francesco, la prima cosa che vuole esprimere attraverso l’Evangelii gaudium è come evangelizzare il mondo di oggi. Attraverso la gioia, che non è solo una disposizione dell’umorismo, ma un dono dello Spirito Santo.
Quale augurio desidera fare al Pontefice in occasione di questo anniversario?
Prima di tutto la salute, che il Papa possa riprendersi e continuare a dare la sua testimonianza di dedizione alla Chiesa. Spero che possa continuare finché Dio glielo permetterà ad accompagnare e a “fasciare” la Chiesa in questo tempo. Molte persone lontane dalla Chiesa, non praticanti o non cattoliche, mi hanno detto in varie circostanze che ci sono pochi leader nel mondo, uno di questi è Francesco. Penso che sia un leader perché ancora oggi le persone importanti di questo mondo, possiamo chiamarlo così, vanno a trovarlo e i poveri si fidano di lui...
Voi condividete il carisma ignaziano essendo entrambi gesuiti. Secondo lei quale caratteristica della spiritualità del fondatore della Compagnia di Gesù è meglio rappresentata nel pontificato di Francesco?
Credo che, in una frase sintetica, sia la capacità di scoprire Dio in tutte le cose. Essere in grado di scoprire il Signore in tutte le cose, perché questa scoperta di Gesù ci porta anche a un’opzione radicale: non possiamo rimanere tiepidi, dobbiamo andare in profondità perché Gesù è andato in profondità. E questo andare in profondità lo considero il magis ignatianus, che significa: «alla maggior gloria di Dio, ma anche al maggior servizio, alla maggior lode», e — come ha detto il Papa in Gaudete et exsultate — non come “pelagiani”, ma come cercatori della volontà di Dio, che è molto diverso.
Ci può ricordare qualche episodio emblematico dell’amicizia con Bergoglio?
Andiamo indietro a cinquant’anni fa. Avevo 15 anni e Bergoglio, quando era Provinciale dei gesuiti in Argentina, andò nella mia città, a Santa Fe, dove c’è una scuola, e io gli dissi che volevo diventare gesuita e lui mi disse: quanti anni hai? Gli ho detto 15, e lui mi ha detto: «Sei ancora troppo giovane, vieni a trovarmi l’anno prossimo». E fu così che ogni anno che frequentavo il liceo dicevo a Bergoglio — quando veniva a Santa Fe — che volevo essere un gesuita. Per questo motivo, una volta mi trovai a dire che gli chiesi di entrare nella Compagnia con i pantaloncini, perché ero davvero molto piccolo.