· Città del Vaticano ·

Nell’ultimo libro di Saverio Simonelli

Le promesse della musica secondo Franz Liszt

 Le promesse  della musica secondo Franz Liszt  QUO-057
10 marzo 2025

di Silvia Guidi

Un omaggio a Franz Liszt, «piano-centauro» e rockstar ante litteram, ma anche una dichiarazione d’amore alla Roma dell’Ottocento, placida e bellissima, «nonna premurosa» a cui piace mostrare la vita che ha vissuto senza alterigia, perché non ne ha bisogno. E un accorato canto di dolore dedicato a Sligo, città-porto affacciata sul mare e sulle rive del fiume Garavogue, città-simbolo di radici antiche ma anche di possibilità di cambiamento, di possibilità di fuga. Un canto di dolore in cui, indirettamente, si descrivono gli orrori della guerra combattuta con le armi dell’economia e della fame oltre che con i soldati e le forniture di munizioni per gli eserciti. Una delle protagoniste del libro L’infinito non basta di Saverio Simonelli (Roma, Città Nuova Editore, 2025, pagine 280, euro 16.90) è l’Irlanda stretta nella morsa della carestia e il dramma dei suoi abitanti, così innamorati della vita da riuscire a godersi perfino la tristezza». Tra le voci narranti del romanzo ci sono Herman, figlio di Wilhelm Grimm, uno dei due autori delle celebri fiabe, e Ludwig, affascinato dalla musica, costretto fare i conti con «le conseguenze dell’amore» per parafrasare il titolo di uno dei più bei film di Paolo Sorrentino, uscito ormai vent’anni fa.

Come nella vita «vera», il tradimento giunge sempre inaspettato; chi è direttamente coinvolto è sempre l’ultimo a capire, e la cruda verità arriva come una luce accecante a smascherare la realtà di un deserto inospitale. Un deserto che si era finto, per tanto tempo, un giardino rigoglioso, un abbraccio piena di calore. Un tradimento ancora più insopportabile quando — come succede a un personaggio del libro (non ne citiamo il nome per non togliere al lettore il piacere di scoprirlo da solo) — Jago e Desdemona rispondono allo stesso nome, sono, in realtà, le due facce di una stessa persona.

In mezzo agli intrecci di tante trame e sottotrame che si avvicendano nel libro, spesso specchiandosi l’una nell’altra in un non-luogo che assomiglia al sogno, o a quello stato di semi-trance indotto dall’ascolto «immersivo» della musica, riappare costantemente il volto affabile ma enigmatico di Franz Liszt. Affascinante, contraddittorio, travolto dalla stessa sovrabbondante ricchezza dei suoi doni, perennemente in fuga dalle aspettative che suscita in chi lo ascolta suonare e lo venera con un essere semi-divino. In fuga da quelle promesse che sa bene di non poter mantenere, consapevole di essere, suo malgrado, un «magnete di finzioni», ma senza amarezza, perché in lui la gratitudine per la bellezza di cui è strumento supera sempre la tentazione dell’angoscia. In una delle ultime scene del libro lo vediamo lontano dal palco, mentre accarezza un cane. «Lo vedo sereno — nota Herman — quasi contento della sua veste nera che ora sembra più chiara, e la luna stavolta non c’entra. Lui, l’unico, un nuovo Orfeo. Che ora però voleva fermarsi nelle braccia della Chiesa in cui credeva, in quelle mura antiche di millenni ma solide. Come le case e i mercati, gli uffici, le corti e le scuole. Chissà cosa sta davvero pensando, mi dico. C’è passata troppa vita dentro quegli occhi e vedo che altrettanta vorrebbero accoglierne». La serenità è un dono, non l’esito di un’alchimia di tentativi, confida Franz ai suoi più giovani amici: «Sapete, la cosa più miracolosa di un miracolo è che accade, non sappiamo il perché, ma accade».