
di Roberto Cetera
Il nodo è sempre quello: che sarà di Gaza al termine della guerra? Se il conflitto è andato ben oltre il dovuto, e se oggi i negoziati sembrano finiti nelle sabbie mobili, dipende sempre e soltanto da questo. La guerra avrebbe potuto chiudersi già molti mesi fa, se solo ci fosse stata condivisione sul governo amministrativo futuro della Striscia. Migliaia di morti in più sono stati causati dall’incapacità a generare una soluzione politica. Quali sono gli ostacoli che la impediscono? Le disgustose esibizioni di Hamas al rilascio degli ostaggi, al di là della messinscena costruita a tavolino, hanno dimostrato che Hamas esercita tutt’oggi un controllo politico sulla popolazione della Striscia. È evidente dunque che per Israele un ritiro delle proprie truppe senza una cancellazione totale della presenza militare e politica di Hamas significherebbe aver combattuto la più lunga e cruenta guerra del lungo conflitto israelo-palestinese senza averla vinta.
L’ipotesi di un governo “tecnico” palestinese supportato da tutte le fazioni palestinesi sembra ugualmente difficile da perseguire. Per quanto Hamas abbia espresso la sua disponibilità a questa soluzione, sembra comunque una prospettiva difficilmente realizzabile. Sia perché ogni nome “tecnico” finora ventilato è stato cassato da Abu Mazen, sia perché un tale progetto sarebbe comunque necessariamente basato sulla persistente e capillare rete sociale di Hamas sul territorio. Israele ha già chiarito che non darà mai il suo assenso ad una soluzione del genere. Ma ancor più un governo palestinese di unità nazionale a Gaza finirebbe necessariamente col contaminare anche gli assetti di potere a Ramallah.
Non meno complessa appare la situazione sul fronte israeliano. Israele, in effetti, non ha finora formulato ufficialmente una proposta di governo futuro per Gaza. Per quanto ampi settori della maggioranza governativa, anche del Likud, non abbiano nascosto propositi di annessione della Striscia attraverso il rientro a Gaza dei coloni, che giusto 20 anni fa vennero fatti ritirare da Ariel Sharon.
L’accordo per il cessate-il-fuoco, raggiunto il 15 gennaio ed entrato in vigore il 19, prevedeva che dopo una prima fase con lo scambio reciproco di ostaggi israeliani e detenuti palestinesi, si dovessero aprire i negoziati per una seconda fase nella quale chiudere definitivamente le ostilità e ritirare le truppe israeliane. Questa seconda fase non è ancora iniziata, e non sembra in procinto di iniziare. Israele chiede invece il solo prolungamento della prima. Una richiesta, questa israeliana, che in molti avevano previsto fin dall’inizio dell’accordo di tregua. Perché Netanyahu per superare l’ostilità dei ministri dell’estrema destra nazionalista-religiosa e così conservare la maggioranza al suo governo, promise loro di riprendere la guerra una volta portati a casa il maggior numero di ostaggi tenuti da Hamas. Il ministro della Sicurezza Nazionale, Itamar Ben-Gvir, non accettò il compromesso e si dimise, mentre il ministro delle Finanze, Bezalel Smotrich, accettò la proposta di Netanyahu, e oggi ovviamente mette all’incasso la cambiale firmatagli dal primo ministro. Ma sul lato israeliano si impone anche un’altra considerazione di ordine più strategico. Mai dalla guerra d’indipendenza del 1948 (Nakba per i palestinesi) Israele si è trovata in una congiuntura cosi favorevole alla realizzazione di quella “Eretz Israel”, la Grande Israele, la terra dal fiume al mare, a cui una parte consistente della società israeliana non ha mai smesso di pensare; ieri con qualche pudore, oggi senza più alcuna remora, con un governo che cancella i termini “Cisgiordania”, “West bank”, per definire i territori “Giudea e Samaria”. L’operazione militare iniziata a Jenin il 21 gennaio scorso — cioè appena 48 ore dopo l’inizio della tregua a Gaza — denominata “Muro di Ferro” (termine che evoca l’auspicato “muro di ferro” contro gli arabi, inventato dal fondatore del sionismo revisionista Zeev Jabotinskij ad inizio del ‘900), e tutt’oggi in corso, è l’evidenza di questa strategia di progressiva annessione dei territori palestinesi. I lineamenti dell’operazione militare, che ha portato finora allo sfollamento di circa 40.000 palestinesi da Jenin, è stata, non a caso, indicata dagli analisti per le sue modalità come “Gaza2”. Da questo punto di vista il governo Netanyahu e parte della società israeliana percepiscono questa guerra come quella definitiva, l’ultima. E la parte della società israeliana che non si riconosce in questo disegno, o di segno progressista, ha comunque un pudore a riproporre pubblicamente l’ipotesi dei due Stati. La progressiva delegittimazione dell’Autorità palestinese perseguita negli anni da Netanyahu ha relegato nell’archivio delle occasioni perdute la possibilità di uno Stato palestinese.
Chi, in ambedue i campi, continua malgrado tutto ad impegnarsi per la fine della guerra, affida le sue speranze al ruolo del presidente americano Donald Trump. Tanto gli israeliani che chiedono la liberazione di tutti gli ostaggi, quanto anche la parte più moderata dello schieramento palestinese, che proprio per bocca del presidente Abu Mazen si era affidata ottimisticamente nei mesi scorsi al presidente degli Usa. Sicuramente il cessate-il-fuoco del 19 gennaio scorso è stato raggiunto grazie alla mediazione impositiva di Trump. Queste speranze sembrano però affievolite dopo la presentazione del surreale piano di ricostruzione e sviluppo turistico della Striscia che implica la deportazione degli oltre due milioni di abitanti palestinesi. A confermare che non si sia trattato di una mera boutade negoziale del leader della Casa Bianca è poi intervenuto nelle ultime ore l’assenso espresso da Trump all’ipotesi di ripresa della guerra da parte di Israele e l’approvazione della decisione di bloccare gli aiuti umanitari alla popolazione civile. Nel 2019, durante il suo primo mandato, Trump aveva presentato un articolato piano per la realizzazione dei due Stati, piano che, per la sua complessità e per la penalizzazione delle ambizioni palestinesi, non venne però mai alla luce. E comunque stabilì che — diversamente dalla maggioranza dei paesi mondiali — l’occupazione dei territori palestinesi, che perdura dal 1967, non dovesse essere più considerata “illegale”. Ora le cose sembrano aver preso un corso ulteriore: il mese scorso Trump ha dichiarato che entro 30 giorni si sarebbe espresso circa la possibilità dell’annessione ad Israele dei territori palestinesi; il mese scadrà nei prossimi giorni.
I Paesi aderenti alla Lega Araba hanno approvato ieri un piano presentato dal presidente egiziano, Abdel Fattah al-Sisi, per la ricostruzione di Gaza; piano da 53 miliardi di dollari sostenuto dai Paesi arabi che ne garantirebbero l’esecuzione. Ma anche per questa proposta si ritorna al punto di partenza: nulla è detto di chiaro su chi dovrebbe governare Gaza mentre loro si impegneranno alla ricostruzione. Difficile immaginare che gli arabi investano decine di miliardi di dollari mentre Hamas rimane più o meno direttamente al governo della Striscia. Ma chi allora? E nell’indecisione il rischio che tra qualche giorno ricomincino i bombardamenti è terribilmente più vicino.