· Città del Vaticano ·

Mentre nell’est del Paese infuria la guerra il centro di accoglienza di Bukavu
offre speranza e futuro alle giovani accusate di stregoneria

Repubblica Democratica
del Congo
La casa delle bambine

 Repubblica Democratica del Congo La casa delle bambine  QUO-052
04 marzo 2025

di Marina Piccone

Dall’inizio dell’anno, sono più di 7.000 i morti nell’est della Repubblica Democratica del Congo. Ma è difficile dare conto del numero reale dei caduti e, soprattutto, della sofferenza di un popolo devastato da una guerra che dura da oltre trenta anni. Il 16 febbraio scorso, dopo Goma, capoluogo del Nord Kivu, il gruppo ribelle M23, sostenuto dal Rwanda, ha conquistato anche Bukavu (capoluogo del Sud Kivu), nel quale, negli ultimi anni, si sono riversate decine di migliaia di sfollati dalle aree interne del Paese, in fuga da razzie e violenze di ogni genere perpetrate da centinaia di gruppi armati. Bukavu è arrivato a contare 2 milioni e mezzo di persone, accalcate in una città che cade a pezzi, con poche e inadeguate infrastrutture, strade dissestate e povertà diffusa.

In questi ultimi giorni, alla situazione di degrado e confusione si è aggiunto il pericolo. Bukavu è teatro di omicidi a cielo aperto, saccheggi e rapine ad opera di bande armate o cani sciolti, tra cui i detenuti scappati dalla prigione locale, più di 2.000, che si aggiungono a quelli evasi dal carcere di Goma. Non si è al sicuro né sulle strade né in casa, dove i furti sono all’ordine del giorno.

Nel quartiere di Kadutu, a nord della città, c’è tuttavia un luogo che appare come un’oasi protetta, inviolabile, e, perciò, divenuto un punto di riferimento. È Ek’Abana («La casa delle bambine» in lingua mashi), un centro di accoglienza per bambine accusate di stregoneria, aperto dalla Caritas locale nel 2002. «Forse perché è vissuto come sacro», dice la fondatrice Natalina Isella, dell’Istituto secolare delle Discepole del Crocifisso, nel Paese dal 1976. Il fenomeno degli enfants sorciers (bambini stregoni) riguarda soprattutto famiglie in condizioni di povertà totale a causa della guerra infinita e della situazione di estrema instabilità nel Paese. L’accusa di stregoneria diviene il pretesto per liberarsi di una bocca da sfamare.

Attualmente, sono 38 gli ospiti di Ek’Abana, per lo più femmine, che rappresentano il 90 per cento delle vittime, ma c’è anche qualche maschietto orfano o in stato di bisogno. La situazione drammatica fa sì che la Casa si occupi anche di bambini esterni, circa 80 quelli che vivono nelle famiglie biologiche, e una cinquantina quelli affidati a famiglie del territorio, che vengono aiutate ad avviare piccole iniziative imprenditoriali attraverso il microcredito. L’attività principale è il sostegno allo studio. «In questo periodo c’è un superlavoro», dice la missionaria. «La scuola è stata ferma più di una settimana a causa dei disordini. Ora ha riaperto, ma la gente ha paura a mandare i figli, così facciamo lezione qui, insieme alle consuete attività formative e ricreative».

La situazione è fuori controllo. Fatti di sangue e soprusi si susseguono senza sosta. «Giorni fa, verso le 22, qui vicino, sono venuti dei ladri che hanno cominciato a sparare; i militari dell’M23, che cercano di accreditarsi come “liberatori”, sono intervenuti, ma, per sbaglio, hanno ucciso due ragazzi che erano andati a vedere una partita di pallone», racconta Natalina. «Dalle 18.30 in poi, la gente non esce più di casa, è terrorizzata, anche se non è al sicuro neanche dentro, perché entrano dappertutto. E se fai resistenza, ti ammazzano».

Difficile descrivere il caos che regna nella città, dove non ci sono poliziotti, i negozi sono chiusi, la miseria mangia l’anima e ognuno cerca di sopravvivere come può. Neanche la notizia di due ladri bruciati vivi da cittadini esasperati scuote più di tanto. Così come gli almeno 12 morti e gli oltre 70 feriti causati da una granata lanciata, non si sa da chi, in occasione di una manifestazione dei nuovi «padroni», il 27 febbraio scorso. Le persone non sanno a quale santo votarsi. E vanno a Ek’Abana. «Abbiamo aperto le porte», dice Natalina. «Vengono le mamme biologiche e affidatarie dei nostri bambini che sono state derubate della merce del mercato; uomini in cerca di un piccolo lavoro; persone che sono costrette a lasciare le proprie case perché requisite dallo Stato; donne che hanno i mariti che lavorano lontano nelle miniere e che non sanno come tirare avanti». La responsabile del Centro offre un aiuto a tutti, che si tratti di piccole somme di denaro, di un lavoretto, di un po’ di viveri, di una parola buona.

Testimonia una grande forza, Natalina, nonostante l’età (si sta avvicinando agli 80 anni), e nonostante l’orrore della guerra e delle sue conseguenze, di cui è stata testimone anche dal suo osservatorio particolare. La miseria, l’insicurezza e la mancanza di istruzione espongono alle superstizioni più insensate, propalate dalle tante sette presenti nel Paese, che riguardano i più piccoli, i quali, quando non vengono abbandonati sulla strada, vengono torturati e talvolta uccisi. Ma la missionaria, guidata da una fede incrollabile, sceglie di vedere anche e soprattutto il bene, incarnato dalle famiglie che dividono il poco che hanno con i figli di altri, i tanti volontari che aiutano nelle attività, i giovani universitari che scelgono di fare lo stage presso la Casa e che organizzano collette per comprare generi alimentari e vestiti. «C’è una grande rete di sostegno, una comunità con cui cerchiamo di costruire un clima di pace e fraternità», dichiara con semplicità Natalina. «Questo posto è amato dalla gente e questo ci fa sentire contenti».