
di Gabriele Nicolò
Riveste un carattere profetico l’interrogativo che Eugenio Montale pose nel discorso tenuto il 12 dicembre 1975, all’Accademia di Svezia, in occasione dell’assegnazione del premio Nobel per la letteratura. «Potrà sopravvivere la poesia nell’universo delle comunicazioni di massa?». La risposta «non può che essere affermativa». Se si intende per poesia la cosiddetta «bellettristica», è chiaro che la produzione mondiale andrà crescendo a dismisura. Se invece ci si limita a quella che «rifiuta con orrore» il termine di produzione, quella che sorge «quasi per miracolo» e sembra «imbalsamare» tutta un’epoca e tutta una situazione linguistica e culturale, allora bisogna dire che «non c’è morte possibile per la poesia».
Montale affermava che è stato osservato più volte che il contraccolpo del linguaggio poetico su quello prosastico può essere considerato «un colpo di sferza decisivo». Stranamente la Commedia di Dante non ha prodotto una prosa di quell’altezza creativa e lo ha fatto dopo secoli. Ma se si studia la prosa francese prima e dopo la scuola di Ronsard, ci si accorgerà che la prosa francese ha perduto quella mollezza per la quale era giudicata tanto inferiore alle lingue classiche e ha compiuto un verso salto di maturità.
L’effetto è stato curioso. «La Pleiade — rilevava — non produce raccolte di poesia omogenee come quelle del Dolce Stil Novo italiano, ma ci dà di tanto in tanto veri “pezzi di antiquariato” che andranno a far parte di un possibile museo immaginario della poesia. Si tratta di un gusto che si direbbe neogreco e che secoli dopo il Parnasse tenterà invano di eguagliare». Questo scenario testimonia che la grande lirica può morire, rinascere, rimorire, «ma resterà sempre una delle vette dell’anima umana».
Nel richiamare l’interrogativo di fondo, Montale mette in evidenza che le risposte potrebbero essere numerose qualora si volesse trovare alla poesia un posto degno e sicuro «nell’ambito della civiltà consumistica e della civiltà dell’uomo robot». La poesia è l’arte tecnicamente alla portata di tutti: basta un foglio di carta e una matita, e il gioco è fatto. Solo in un secondo momento sorgono i problemi della stampa e della diffusione. «L’incendio della Biblioteca di Alessandra — ricordava — ha distrutto tre quarti della letteratura greca. Oggi nemmeno un incendio universale potrebbe far sparire la torrenziale produzione poetica di questi giorni. Ma si tratta appunto di produzione, cioè d manufatti soggetti alle leggi del gusto e della moda. Che l’orto delle Muse possa essere devastato da grandi tempeste è, più che probabile, certo. Ma mi pare altrettanto certo che molta carta stampata e molti libri di poesia debbano resistere al tempo».
Diversa è la questione se ci si riferisce alla reviviscenza spirituale di un vecchio testo poetico, il suo rifarsi attuale, il suo dischiudersi a nuove interpretazioni. E infine resta sempre dubbio in quali limiti e confini ci si muove parlando di poesia. «Molta poesia d’oggi si esprime in prosa — osservava —. Molti versi d’oggi sono prosa e cattiva prosa. L’arte narrativa, da Murasaki a Proust ha prodotto grandi opere di poesia. E il teatro? Molte storie letterarie non se ne occupano nemmeno, sia pure estrapolando alcuni geni che formano un capitolo a parte».
Come si spiega il fatto — si chiedeva il premio Nobel — che l’antica poesia cinese resiste a tutte le traduzioni mentre la poesia europea si spiega col fatto che noi crediamo di leggere Po Chu-i e leggiamo invece il meraviglioso contraffattore Arthur Waley? Si potrebbero moltiplicare le domande con l’unico risultato che non solo la poesia, ma tutto il mondo dell’espressione artistica è entrato in una crisi che è strettamente legata alla condizione umana e alla nostra illusione di pensare di essere privilegiati, i soli che si credono «padroni della loro sorte» e «depositari di un destino che nessun’altra creatura vivente può vantare».
È amara la conclusione di Montale che lascia intendere che potrebbe risultare inutile domandarsi quale sarà il destino delle arti. «È come chiedersi — dichiarava — se l’uomo di domani, di un domani magari lontanissimo, potrà risolvere le tragiche contraddizioni in cui si dibatte fin dal primo giorno della creazione, e se di un tale giorno, che può essere un’epoca sterminata, possa ancora parlarsi».