· Città del Vaticano ·

Una città che accoglie tutti

 Una città  che  accoglie tutti  ODS-029
01 marzo 2025

Giovanni conosce bene Roma. La storia e l’arte l’hanno sempre appassionato e, nonostante una malattia agli occhi gli impedisca di continuare a studiare così come vorrebbe, è sempre pronto ad approfondire le vicende della sua città e... a dire la sua. Così, quando in redazione è nata l’idea di raccontare la storia di don Roberto Sardelli — il prete dei baraccati dell’Acquedotto Felice al quale è intitolato il progetto di housing sociale della diocesi di Roma —, Giovanni è subito intervenuto: «Sì, ne ho sentito parlare... ma mi piacerebbe saperne di più».

Abbiamo perciò deciso di chiedere aiuto a Paolo Berdini, che di don Sardelli è stato collaboratore — da giovane studente lo aiutò durante l'estate nella “Scuola 725” — e amico fraterno, fino agli ultimi giorni, e al quale deve tanto della sua formazione ecclesiale e civile. Lo abbiamo incontrato in un bar, nei pressi di Piazza San Pietro, non troppo lontano da Palazzo Migliori, la casa per i senza casa voluta da Papa Francesco, dove Giovanni vive.

Paolo — Giovanni, tu hai conosciuto don Roberto?

Giovanni — No, non l’ho conosciuto, ma ho conosciuto persone che me ne hanno parlato. E mi interessa saperne di più, partendo dalle sue origini.

Paolo — Hai ragione: è dalle origini che si capisce tutto della vita di questo prete. Era il 1° novembre 1943 quando gli alleati bombardano Pontecorvo. È la festa di Ognissanti e nessuno se l’aspetta, tant’è che tanti muoiono mentre sono in chiesa e al mercato. È una bestemmia: alle 9.30 tutto il paese viene raso al suolo. Anche la casa di famiglia di don Roberto. Lui ha otto anni. Secondo me questa ferita gli resta per tutta la vita. Pensa a cosa può significare vedere in macerie la tua casa, la scuola, tutto. Ti senti strappare le radici.

Questo è il filo che lega tutta la sua vita. Quando arriva nella parrocchia di San Policarpo, dalle finestre vede le baracche ammassate sotto gli archi dell’acquedotto. Ci vivono 450 famiglie. Vede e capisce che quella è la sua vita. Siamo nel 1968, lui era prete da tre anni ed era stato chiamato a fare il viceparroco, ma sente che la canonica non è il suo posto. E allora va e condivide la vita con i baraccati.

Giovanni — In quegli anni via Lemonia cominciava a diventare la cosiddetta “strada pariolina” del Tuscolano: da una parte palazzine di pregio e dall’altra le baracche dove in pochissimi metri quadrati vivevano soprattutto famiglie immigrate dal meridione. C’erano pure prostitute e omosessuali cacciati di casa dalle famiglie. Don Sardelli va e porta il Vangelo a queste persone.

Paolo — Sì, azzecchi tutto. Don Roberto va lì perché incarna il Vangelo. Non fa chiacchiere. Lui va per incarnare il Vangelo, per condividere la vita con i poveri. Questo è don Roberto. Per dire quanto è vero quello che hai detto tu, pensa che la baracca dove nasce la “Scuola 725” la compra da una prostituta. Nei suoi libri racconta che nei primi tempi ogni tanto qualcuno bussava alla porta per cercare “la signora”. E lui rispondeva: “No, qui c’è un prete, c’è una scuola”.

C’è pure un’altra storia stupenda che ti voglio raccontare, una storia di dignità. Nel 1973, il comune fa un censimento dei baraccati per trasferirli a Nuova Ostia. Viene assegnata una casa popolare anche a tre ragazzi transessuali. Sai, Giova’? Hanno rinunciato. Don Roberto gli diceva: “No, voi dovete prendere casa, siete baraccati pure voi”. Li aveva convinti, ma la sera dopo sono tornati da lui e gli hanno detto: “Noi non c’abbiamo diritto alla casa perché la nostra vita è deviata rispetto alla vostra”. Pensa a cosa è successo in quell’anno: era il 1973.

Giovanni — Ma, secondo te, don Sardelli era un figlio del ‘68? Oppure era un prete operaio o, semplicemente, un prete che voleva essere coerente con la sua vocazione?

Paolo — Non è un figlio del ‘68. Di sicuro lui vive il clima del Concilio Vaticano ii. Aveva conosciuto i preti operai, perché a un certo punto fa pure una vacanza in Francia — un po’ di straforo perché, sai, che quando sei in seminario non è che te ne vai in vacanza — e lì conosce questa esperienza. E conosce pure dei ragazzi della scuola di don Milani che lo invitano a visitare Barbiana.

Giovanni — Quell’esperienza la riproporrà a Roma, in una realtà molto più complicata e dispersiva.

Paolo — Bravo. Lui ci prova, ci prova tanto. Don Roberto e don Milani sono due figure per certi versi molto vicine, ma anche molto diverse. La differenza profonda è che don Milani fa la scuola, perché Barbiana è un paesino sperduto dell’Appennino, mentre don Roberto fa il doposcuola, perché crede nel ruolo della scuola pubblica.

Giovanni — Lo fa per mettere i ragazzi delle baracche alla pari con gli altri.

Paolo — Esatto. Lui la pensa come don Milani: uno che conosce 2.000 parole sarà sempre uno sconfitto di fronte a chi ne conosce 10.000. Per questo spinge i ragazzi ad imparare: gli fa leggere i classici e pure i giornali, tutto.

Giovanni — Come reagì la parrocchia?

Paolo — Isolamento completo. Don Roberto paga dei prezzi terribili per le sue scelte. Solo trent’anni dopo, un prete operaio, don Mario Pasquale, lo chiama a dire messa nella sua parrocchia di San Bernardino da Siena, che sta a quattro chilometri dal Raccordo Anulare, sulla Casilina.

Giovanni — Ma quei trent’anni sono come un buco nero: don Sardelli è un prete di cui a nessuno fa comodo parlare.

Paolo — È così. Lui vive un rapporto difficile con la gerarchia ecclesiastica. E viene isolato.

Giovanni — Volevano che restasse in silenzio?

Paolo — Sì, ma lui non lo fa. È questa la forza di quest’uomo. Oggi, però, i tempi sono cambiati. Pensa Giovanni: il 30 gennaio, per la presentazione del progetto di housing sociale intitolato al suo nome, nella chiesa di San Policarpo c’erano, insieme con il cardinale vicario Baldo Reina e il sindaco Roberto Gualtieri, seicento persone. La chiesa era piena.

Giovanni — Comunque, resta il fatto che per tanti anni don Sardelli è stato ignorato non solo dalla Chiesa, ma anche dai giornali e dagli intellettuali, anche da quelli progressisti.

Paolo — È vero. Ma questa cosa lui se l’aspettava.

Pensa che nel 2007, Fabio Grimaldi fa un bellissimo documentario sulla “Scuola 725” intitolato «Non tacere», come il libro che nel 1969 aveva scritto con i suoi ragazzi insieme alla famosa «Lettera al sindaco» nella quale denunciavano la vita di miseria delle baracche di Roma. In occasione del documentario, quei ragazzi, ormai cresciuti, hanno cominciano a rivedersi. E nel 2005, insieme con don Roberto, scrivono «Per continuare a non tacere», urlando l’abbandono in cui versavano le periferie.

Giovanni — E la mandano al sindaco?

Paolo — No, gliela portano. Ma è stato un buco nell’acqua. D’altra parte quelli erano tempi in cui, a Roma e in realtà in tutto l’Occidente, la politica diceva: “Non vi preoccupate. Va tutto bene. Ci sarà ricchezza per tutti”. Perciò a chi poteva interessare un prete e quattro ragazzotti che gridavano: “Non è tutto lustrini e luccichii. Ci mancano le case per le persone povere: come nel 1973 per i baraccati, oggi c’è bisogno di altre case per gli immigrati, per i giovani...”. Tutto questo viene ignorato, perché la polvere va messa sotto al tappeto.

Giovanni — Detta così don Sardelli potrebbe essere scambiato per un sindacalista. Ma non credo che lo fosse.

Paolo — Era un prete che stava dalla parte degli ultimi. Diceva che insieme alla casa ci vogliono i servizi, ci vuole la scuola, ci vuole la sanità, ci vuole una città che accoglie. Questo era il suo sogno: una città che accoglie tutti, chi sta bene e chi non ha reddito, perché siamo tutti uguali.

Giovanni — E questo lui lo riportava anche sul piano spirituale?

Paolo — Certo, lui era un prete vero. Sulla sua tomba ha voluto che fosse scritto semplicemente: «Don Roberto Sardelli — Sacerdote di Roma».

Giovanni — Parlami dei suoi scritti.

Paolo — Lui scrive di tutto e tanto. I testi che lo hanno fatto conoscere sono ovviamente quelli che riguardano la scuola, quindi «La lettera al sindaco», «Non tacere» e «La lettera ai cristiani di Roma» che scrive nel 1972 insieme con altri dodici preti. Ma era interessato a tutto. A un certo punto conosce un altro prete fantastico, don Bruno Nicolini, fondatore dell’Opera Nomadi. Comincia a frequentare le comunità rom e scrive un libro sul ballo del flamenco, perché, nel ballo di questa gente emarginata molto più di lui, vede una grande spiritualità. Nel 1998 pubblica, poi, «Le margherite sono le nuvole del prato», un altro libro meraviglioso nel quale racconta le storie di giovani malati terminali di aids ospitati nella comunità di Villa Glori creata da don Luigi Di Liegro.

Giovanni — E che fa dopo il 2000?

Paolo — Si interessa della polis, della città, del vivere insieme. A me ha dato tanto per il mio lavoro. È una città vista con la spiritualità di un prete che deve tenere tutti insieme, perché tutti hanno gli stessi diritti. In quel periodo scrive con alcuni amici un altro bellissimo documento, ma tutta la politica — anche tutta la sinistra — è spietata: lo ignora completamente. Ovviamente per lui è una forte delusione.

Giovanni — Che idea aveva della globalizzazione?

Paolo — Ti rispondo riprendendo un filo che mi interessa tanto. È l’unico a parlare dell’economia dominata dalla finanza come di un’economia di rapina. È il primo a farlo. La politica la spaccia come una salvezza per tutti, ma lui la considera una cosa mostruosa, tant’è che in questi ultimi vent’anni sono aumentate le disparità. Lui lo aveva già intuito. Ma la storia sa vendicarsi. Chi è che oggi parla contro questa economia dello scarto? È Papa Francesco.

a cura di Piero Di Domenicantonio