
di Federica Cammarata
Cosa significa sperare in un ospedale pediatrico? Quando la vita inizia tra incertezze, diagnosi inattese o persino la morte, come si fa a non perdere la speranza? A rispondere è Valentina Sala, ostetrica e suora della congregazione di San Giuseppe dell’Apparizione, con anni di esperienza nell’ospedale di St. Joseph a Gerusalemme Est — fondato nel 1956 dalle stesse suore — dove nascono bambini di ogni fede in un contesto di tensioni e conflitti.
«Perché il focus non è la sofferenza — racconta suor Valentina —, ma una sofferenza avvolta dall’amore dei genitori. Ho visto bambini con sindrome di Down non diagnosticata prima, famiglie che hanno dovuto accogliere una realtà inattesa. Ho visto anche la tragedia della morte intrauterina, quando un bambino nasce senza vita. In quei momenti, c’è un silenzio che pesa, eppure ho sempre trovato nell’accompagnare queste storie una bellezza profonda: la potenza dell’amore che i genitori hanno per i loro figli. La speranza non è solo nella gioia, ma nell’amore che resiste al dolore e non lascia soli. La morte non spezza il legame».
Gerusalemme Est è un luogo dove la speranza non è mai scontata. Le tensioni, gli scontri, la paura possono spegnerla. Ma suor Valentina vede ogni giorno piccoli segni che dicono che nulla è perduto. «La speranza non è spontanea, va cercata. Ci sono episodi quotidiani che non fanno notizia, ma che parlano di riconciliazione, di resistenza al male. E non solo bisogna cercare di vederla, la speranza va anche costruita, per cui diventa anche una scelta: la scelta di generare — nel modo di porsi gli uni verso gli altri — quello che dà vita, che dà speranza. Un modo per me è cercare di accompagnare queste storie, di entrare nel dolore dell’altro per esserci, per non lasciare soli». Ci sono piccole storie, dentro la grande Storia disperata, su cui può poggiare uno sguardo di fede nel futuro: «È proprio tenere aperte delle possibilità di avere un futuro e che sia un futuro di vita migliore. Sì, un futuro in cui si può vivere, ecco, non solo soffocare».
Tra le storie che porta nel cuore, ne racconta una al nostro giornale. «Yasan era il primo figlio di una coppia musulmana, nato con sindrome di Down. All’inizio i genitori erano smarriti, ma nel tempo hanno imparato ad amarlo con tutto loro stessi. Per sette anni non hanno avuto altri figli, bloccati dalla paura. Poi, un anno e mezzo fa, hanno avuto un secondo bambino. E io ho visto in questo un percorso di speranza che ha trasformato il dolore in amore consapevole».
Un altro ricordo la commuove ancora oggi. «Una bambina era nata in condizioni gravissime, rianimata subito dopo il parto e messa in ipotermia per ridurre il rischio di danni cerebrali. La madre ha potuto prenderla in braccio solo giorni dopo. Quando finalmente l’ha stretta a sé, ha pianto. Anche io ho pianto. Oggi quella bambina sta bene, ed è tornata a trovarci dopo un anno: un piccolo miracolo, un segno che la speranza resiste anche quando tutto sembra perduto».
Ma la testimonianza più potente arriva da chi ha dovuto salutare un figlio senza poterlo vedere crescere. «Le madri che tengono in braccio un bambino nato senza vita, che lo accolgono per poi lasciarlo andare, ci mostrano che l’amore può superare anche la morte. In quel dolore, in quel silenzio assoluto, c’è una luce che non si spegne. Per me, questa è la speranza più grande: è un amore che tiene vivo in un altro modo. Ho visto la luce di questo amore materno e anche paterno, che solleva questo bambino — mai nato — da morte».
Nel lavoro quotidiano, anche tra le corsie di un ospedale che accoglie bambini cristiani, musulmani ed ebrei, suor Valentina vede un riflesso di qualcosa di più grande. «La speranza non è solo per il futuro, è radicata nella memoria: Dio è già intervenuto nella storia e continuerà a farlo. Anche quando non la vedo, so che la speranza c’è, perché la storia ha una direzione. E non è una direzione di morte, ma di vita».
Il poeta francese Charles Péguy celebrava la speranza — nel poema Il portico del mistero della seconda virtù (1911) — con queste parole: «È sperare la cosa difficile — / a voce bassa e vergogno-samente. / E la cosa facile è disperare / ed è la grande tentazione».
Dagli occhi di una suora, in una Terra piena di conflitti e odio, da sale parto dove bambini possono morire, ascoltiamo di tanti uomini e donne, con il loro Dio, dare concretezza al grande coraggio della speranza, della disperazione vinta dall’amore. La tentazione è vinta e con voce alta e senza vergogna è possibile dire che tutto può essere vinto, anche la morte.