· Città del Vaticano ·

Parole tenute dentro da far sentire fuori

 Parole tenute  dentro da far sentire    fuori     ODS-029
01 marzo 2025

«Il carcere da fuori non mi commuoveva, non mi colpiva. Credo, come alla maggior parte delle persone, semplicemente che non me ne importava dell’esistenza. Si sa che esiste, ma non ti riguarda: è per chi ci deve stare. E poi ci sono entrata, mi sono trovata qui dentro. Ad accorgermi che non è affatto un luogo da sottovalutare. È un luogo di sofferenza».

Fra le sbarre della Giudecca risuonano le parole così poco comuni di Papa Francesco: «Ogni volta che entro in un carcere mi faccio la stessa domanda: perché loro e non io?». Questione rimossa, quasi insostenibile, su cui si sostiene la distanza fra dentro e fuori. Un binomio — dentro e fuori — che la detenzione imprime nei pensieri, nei sogni, nelle parole di ogni giorno. Due mondi nello stesso mondo, separati da mura, sistemi di sicurezza e soprattutto tempo: giorni, mesi, anni.

In carcere c’è chi per lavoro entra ed esce, ogni giorno. Chi abita al suo interno, però, fa dello spazio e del tempo un’esperienza separata. La voce che ci ricorda «è un luogo da non sottovalutare» coglie perfettamente la posta in gioco.

«Per voi è difficile capirlo, ma noi siamo costrette a rivederci tutti i giorni. Stiamo negli stessi spazi senza esserci scelte, in poco spazio. La vita in cella può essere un inferno e lì dentro ci sei tu, non puoi andare da un’altra parte. Qui è un concentrato di malizia, di pregiudizi, di invidia, di ignoranza. L’ignoranza fa moltissimo. Porta a diventare nemiche anche se si è sulla stessa barca. D’altra parte, quel che abbiamo nel cuore esce dalla bocca e ci si può fare molto male. Facciamo tutte l’esperienza di sentirci giudicate non solo dalla legge, o dalla società che è là fuori, ma anche dalle altre che vivono con noi. Allora, proprio qui, bisogna scegliere. O ci si lascia contagiare da tutta questa negatività, oppure la si riconosce, la si rifiuta e si inizia a cambiare. Per vivere, per andare avanti con umanità».

Forse, allora, la barriera fra dentro e fuori è meno spessa di quanto appaia, forse è più artificiale di come sembra. L’impressione è che si concentrino, dietro le sbarre, tensioni interne a ogni realtà umana: contrasti e veleni che rendono campo di battaglia i luoghi del lavoro e della convivenza, l’ignoranza che ovunque fa parlare senza pensare, il risentimento che proietta sugli altri le personali inquietudini e le colpe che pesa ammettere. Ascoltare tanta sofferenza avvicina alla comune, eppure rara, conclusione: si può fare la differenza, si può scegliere, si può cambiare.

«Ho tanti di questi pensieri», confida un’altra voce: a questo serve un luogo di condivisione, un tempo per la parola. Pronunciare ciò che il cuore avverte, fissarlo su un foglio o dirlo a chi fa come il vuoto e accoglie: farsi spazio. E rompere la barriera, attraversare le porte chiuse. Piace che escano dal carcere, che lascino la laguna e raggiungano tanti lettori le parole nate dal cuore. «Mandare un messaggio fuori. Non perché l’ho scritto io, non per sentirmi brava a scrivere o a parlare, ma perché esca. Molti entrano nel carcere — politici, registi, scrittori, giornalisti, esperti di tante cose —, ma nessuno ascolta le nostre voci e soprattutto nessuno le porta fuori. Sembra a volte di essere allo zoo: viene questo e quello, persone anche famose, che ci guardano rapidamente, chiuse in gabbia. Non credono, forse, che abbiamo una parola. Ed è allora straordinario che finalmente qualcosa che qui pensiamo e comprendiamo esca, perché può servire. Può fare pensare. Fuori ci sono cose a cui anche noi non pensavamo mai. Qui si capiscono più chiaramente ed è importante se fanno riflettere qualcuno che le leggerà».

Un anno di esperienza e di contatti con l’esterno, resi possibili dalla scelta di allestire dentro il carcere il Padiglione vaticano, ha modificato radicalmente la percezione del contributo che si può dare. «Sono entrate più di ventimila persone e noi abbiamo studiato per essere le guide, ma poi tutte e tutti ci interrogavano sulla vita qui. Nella gente che forse prima, come tutti, pensava male del carcere o non ci pensava proprio, abbiamo visto tante emozioni, tante lacrime, la fine del pregiudizio». È un dono che deve continuare, per chi ha scoperto di avere voce e dignità e per chi ha bisogno di una scossa: non solo parole, ma esperienza.

Alessandra, Angelica, Emanuela,
Fanta, Giulia, Nadireh, Paola,
Stefania, Susanna, Flavia, Sergio